venerdì 3 agosto 2012

Leggere. Storie su due piedi.

Viserba nei ricordi di Enea Bernardi
Pensieri sul volume
“Storie su due piedi, immagini della memoria”
Di Marzia Mecozzi

Le immagini della memoria che, su due piedi, si trasformano nelle storie di Enea Bernardi, illustre viserbese, sono flashback di tanti passati messi insieme: remoti, prossimi, imperfetti…
Si mischiano col suo presente in un vaevieni di nomi, luoghi, avventure, circostanze, casi curiosi,
antiche domande senza risposta, sogni, ombre e fantasmi.
Alcune di quelle storie tornano in una Viserba che non esiste più, una terra sconosciuta ai tempi nostri, ma forse ancora cara a molti che ne ricordano l’innocente e selvaggia purezza.
In quella landa sabbiosa e dimenticata, dove la memoria s’incaglia in paesaggi nebbiosi dell’anima, c’era, quella volta, per esempio, un canale chiamato dapprima La Viserba e poi La Fossa dei Mulini. In quel canale, che a volerlo percorrere a ritroso saliva dalla zona mare verso il Mulino dei Leli, oltre il quale sorgeva la vecchia Corderia, s’avviano i ricordi del Professore che era nato a Viserba nel 1922. E quei ricordi si spingono ancor più in là, attingendo alla mitologia popolare imbastita col vero, di quando “i binari della ferrovia non dividevano ancora la marina dal monte, non esistevano case e strade ma solo sentieri segnati da piante selvatiche e spinose e le dune di sabbia si stendevano a perdita d’occhio.” Allora, compariva, livido e tenebroso lo spettro de Surcion, uno Stige infernale dal nome aspro e chioccio, derivazione del francese source (sorgente) ma che la tradizione popolare
riteneva equivalente a Il Cerchione, perché verso la metà dell’Ottocento la sorgente in mezzo alle sabbie mobili era stata delimitata da un parapetto di cemento a forma di cerchio. Uscite poi dalla periferia, le storie s’aggrappano a precisi accadimenti della vita dai quali la riflessione si allarga a cogliere significati più vasti, in un senso di oltre-lettura impregnato di quella saggezza filosofica che a Enea Bernardi, docente di scienze dell’educazione all’Università di Firenze, non faceva certo difetto. E il tutto condito da una scrittura elegante ancorché vigorosa, leggera sulle sfumature cupe, vibrante
sui fotogrammi giocosi, ma sempre morbida nell’adagiarsi sulle immagini della memoria.

Il partigiano Nino

Arriva col suo
bastone accessoriato, che nella notte può anche illuminargli il cammino… si
siede nel salotto ‘della memoria’ e si mette comodo, perché di cose da
raccontare - anticipa immediatamente – ne ha davvero tante. Lui è Rocchi Primo,
detto Nino, classe 1922.

La Viserba di Primo è la terra alla quale egli ritorna dopo
gli anni di lavoro nelle grandi città degli anni Quaranta: prima Milano, dove
un parente gli aveva procurato una richiesta di lavoro, poi Napoli. È un luogo
dove ancora deve impazzare la furia devastatrice dell’ultimo anno di guerra, la
terra delle vongole e delle dune di sabbia. Gli episodi sui quali si concentra
il racconto di Primo partono da un preciso momento storico: lo sbarco alleato
in Italia. Nel luglio del ‘43 gli alleati anglo-americani sbarcano in Sicilia e
iniziano a risalire la penisola. Il 25 luglio il Re fa arrestare Mussolini,
nominando Pietro Badoglio capo del governo e il fascismo viene dichiarato decaduto.
Lo stesso governo Badoglio, l’8 settembre 1943 firma l'armistizio con gli
alleati, ma i tedeschi occupano Roma e liberano Mussolini dalla sua prigione
sul Gran Sasso. Badoglio lascia Roma e, insieme alla corte, si rifugia a
Brindisi nel territorio controllato dagli americani, mentre l'esercito tedesco
invade l'Italia del centro-nord.
Inizia così la guerra di Resistenza in Italia, che vide contrapporsi le truppe
irregolari partigiane ai soldati tedeschi occupanti e al risorto esercito
fascista della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
“Tornai a Viserba, la mia terra d’origine, dopo gli anni
trascorsi a lavorare prima a Milano, poi a Napoli, risalendo la penisola insieme
al fronte. Già a Napoli ero stato fra i gruppi antifascisti che avevano liberato
la città dal dominio nazista prima ancora che gli alleati arrivassero…”
Durante quell’insurrezione popolare, che passò alla storia come ‘le quattro giornate di Napoli’, gli abitanti della città partenopea,
sostenuti da militari italiani fedeli al Regno del Sud, ormai esasperati e
stremati per i lunghi anni di guerra, si erano ribellati con successo ai
nazisti ed erano riusciti a liberare la città dall'occupazione delle forze
armate tedesche. Quando gli alleati, il 1 ottobre 1943, giunsero a Napoli, trovarono
una città già libera, grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti.
“Ci fu un momento in cui la guerra parve sul punto di finire
– ricorda Primo – un momento di smarrimento e di perplessità, in cui si cercava
di capire come saremmo andati a finire… in quel momento intrapresi un
turbolento viaggio di ritorno a casa; un po’ a piedi, un po’ con un convoglio
che mi portò fino a Roma… ricordo che avevo una gamba ferita piuttosto
gravemente. Quando bombardarono Cassino, fra il gennaio e il febbraio del ’44, ero
lì…”. Il Comune di Cassino, ai piedi del colle su cui sorge la celebre Abbazia
di Montecassimo, fu completamente distrutto dai bombardamenti degli Alleati che
intendevano fare breccia nella Linea Gustav, assediare Roma e collegarsi con le
forze alleate che rimanevano confinate ad Anzio, alle spalle del fronte
tedesco. Dopo una tenace resistenza tedesca a Montecassino, che si protrae fino
alla fine di maggio, Roma viene liberata. I tedeschi abbandonano l’Italia
centrale e si arroccano sul fronte appenninico: la Linea Gotica.
“Dopo le esperienze di Napoli, ero avvezzo alla vita
sotterranea, - riprende Primo - che anche qui a Viserba presi a condurre. Tornai,
ovviamente, da partigiano, per proseguire nell’impegno che fino a quel momento
mi aveva visto da una parte precisa della barricata.”
Il fronte si era spostato proprio nel territorio riminese,
erano momenti molto difficili, le persone erano sfollate altrove.
“Qua a Viserba andavano e venivano anche uomini politici e
militari importanti. – prosegue - Diversi Generali avevano qui le loro ville
estive. Fra questi c’era il Generale Malavasi, romano, capo di stato maggiore
dell’esercito italiano. Aveva firmato con Badoglio la resa dell’Italia. Insieme
alla moglie, la Contessa De Laurenti (il padre era un famoso medico), si era
rifugiato qua, nella sua villa fra Viserba e Viserbella, all’angolo di via
Vincenzo Busignani. I tedeschi lo cercavano, lui si era nascosto nelle cantine
della villa, c’erano anche altre otto, dieci persone insieme a loro… gente di
qui, del posto. Nessuno ha parlato, tutti hanno mantenuto il segreto, c’era
molta solidarietà. Anche i forestieri, che passavano qui l’estate, erano di noi.”
La vita improvvisamente assumeva tutta un’altra dimensione.
Non c’erano più abitudini, regole, ritmi quotidiani. Improvvisamente non si
andava più alla guerra, la guerra era arrivata in mezzo alle case, alle
persone. Viserba era un’area già più periferica rispetto alla città di Rimini,
sulla quale ogni giorno si abbattevano bombardamenti a catena: sul porto, sulla
ferrovia, sul centro storico e nevralgico della vita sociale e politica. A
Viserba, ancora si sopravviveva.

La Linea Gotica n.1,
detta anche Linea Verde n 1, - come si legge nella bella opera di Amedeo
Montemaggi “Linea Gotica Scontro di
Civiltà” era una linea di 320 Km che da Pesaro attraversava gli Appennini
sui passi del Muraglione, del Giogo di Scarperia e della Futa e giungeva al
Tirreno, a Massa Carrara. La Linea
Gotica n. 2 andava da Riccione a Coriano, a Gemmano, a Sarsina, a Galeata e
Marrani, poi a Riolo, Porretta Terme fino al Tirreno. L’ordine alleato era
semplice, ma grandioso: sfondare la Linea Gotica, distruggere i tedeschi in
Italia e penetrare nei Balcani, incontro ai Russi. Si combatterà su quel fronte
fino al 6 gennaio 1945, ma la decisione è presa entro il 30 settembre 1944 con
la conclusione della Battaglia di Rimini. Nei primi 37 giorni di combattimento
la perdita in termini di risorse umane ammonta a 100 mila uomini compresi i
civili. La città di Rimini è rasa al suolo da 400 bombardamenti aerei e navali.
“Noi partigiani, stavamo sempre nascosti, ci chiamavamo con
soprannomi, - riprende Primo - non sapevamo neppure il nome degli altri del
gruppo, perché se i tedeschi avessero preso qualcuno di noi, non saremmo stati,
neanche volendo, in grado di rivelare le identità dei compagni… Di tanto in
tanto tentavamo qualche sortita: mettevamo chiodi sulle vie di passaggio delle
auto dei militari tedeschi, tagliavamo i fili del telegrafo per rendere
difficili le loro comunicazioni. Una volta, ricordo che Guerrino Para, che
oltretutto non c’entrava niente con il nostro gruppo, venne fermato da una
camionetta tedesca. Lui aveva una gran cesta di frutta. L’ha offerta a quegli
ufficiali, e, da sotto al cesto gli ha fregato il parabello (una sorta di
mitraglietta), esponendosi ad un enorme rischio.”
Le giornate trascorrevano tutte uguali, e i luoghi che tornano
fra i ricordi di Primo, sono quelli, più appartati, dove c’è ancora la vecchia
corderia, e nei campi li attorno, fino all’area dove oggi sorge il Centro 2000.
“Stavamo nascosti all’interno delle mura della vecchia corderia, - dice - dentro
un enorme pagliaio dal quale potevamo veder fuori, cosa stesse accadendo… quel
pagliaio era diventato a tal punto la nostra casa che, all’interno aveva
assunto le dimensioni di una stanza. Addirittura, un filo della luce ci
collegava con una casa lì vicina, dalla quale, tirando il filo, ci veniva dato
l’allarme della presenza nemica. Mi hanno preso due volte. Una delle due volte
sono fuggito saltando nella buca del letame…Ricordo che anche qui a Viserba,
c’erano personaggi legati ai servizi segreti inglesi. – prosegue Rocchi – Il
giornalista Guido Nozzoli, che faceva la spola qui, via mare, ci aveva dato i
nomi dei principali capi e in particolare del capo del controspionaggio
inglese, qui in zona.” Guido Nozzoli aveva partecipato alla Resistenza come
comandante partigiano ‘responsabile diretto’ nella zona di Rimini. Eletto
consigliere comunale del PCI nel 1946.
“Fu lui a scongiurare la mia cattura da parte dei tedeschi –
rivela Rocchi - e che mi aiutò anche all’indomani dell’arrivo dei soldati
americani, canadesi, inglesi, anche a Viserba. Mi aveva fatto un foglietto,
scritto a mano. Cosa ci fosse scritto… non lo so. So che quel bigliettino
conteneva le parole chiave per la salvezza, come un antico salvacondotto.
Quando gli alleati sono entrati in città, mi sono unito a loro e con loro ho
proseguito la risalita fino a Ravenna. Gli inglesi avevano bisogno di autisti e
io mi sono offerto. Guidavo un camion che veniva chiamato “cantina mobile”
portava ogni ben di Dio… Era una condizione privilegiata, mi davano abiti, cibo
e 75 lire al giorno per fare quel lavoro. Avevamo persino un cuoco di Pescara
che cucinava per tutto il campo. Finalmente, dopo tanti disagi e difficoltà e ‘resistenza’…
mi sentivo ripagato di tutto. È vero, erano stati coloro che avevano distrutto
le nostre case, le nostre strade, che avevano raso al suolo Rimini, ma
purtroppo, anche se il prezzo da pagare era stato molto alto, senza
quell’intervento non ce l’avremmo fatta. Degli anni seguenti alla guerra… beh,
con un fatto più lieto vorrei concludere:
nel 1949, si andava tutti in bicicletta, quel giorno Gino
Marconi mi ha prestato la sua… siamo partiti proprio da questa piazza, ragazzi
e ragazze… sul cannone della mia bicicletta è salita Elvezia Tordi, mia moglie.

Tipicamente Fabio

articolo pubblicato da Rimini IN Magazine, giugno 2006
Santarcangelo
è una fucina d’artisti. Poesia, pittura e teatro sono la linfa di questo bel paese
di Romagna. Santarcangelo è un cenacolo riminese d’identità locale e, fra i
figli più noti al grande pubblico c’è Fabio De Luigi, attore, comico, uomo di
palcoscenico a tutto tondo.

Mentre tutto, intorno, è
multiculturale, multietnico e globale, fedele a se stessa l’intelligenzia del luogo promuove già da
diverso tempo un principio in netta controtendenza. E’ la ‘riminesità’, parola
coniata a proposito e che propriamente significa identità locale.
C’è grande attenzione alla
cultura della riminesità, si studiano le radici, fervono iniziative a
salvaguardia delle tradizioni e il dialetto, fatto di commedia e poesia, si riscopre
degno di una nuova stagione artistica e letteraria.
Fra i grandi della tradizione
romagnola c’è il contemporaneo Raffaello Baldini, poeta, scrittore,
commediografo il cui omaggio, ad un anno dalla scomparsa, è stato affidato alla
sapiente arte, nonché al dialetto spiccio, di Fabio De Luigi che, con il poeta, condivide teatro e paesello
natio, lingua e umorismo, sagacia e virtù. Così, nell’occasione di quello
spettacolo che Fabio si accingeva a portare in scena nella scorsa primavera ‘I Insògni. Per Raffaello Baldini’, lo abbiamo
incontrato: sempre il solito ‘ragazzo della porta accanto’ (magari avercelo, un
vicino così!), simpaticamente colto, battuta pronta e una veracità tutta
romagnola, propria di Santarcangelo, dove è nato nell’autunno del 1967. Di
questo paese-fucina da cui provengono pittori e poeti, lui ha desunto molti degli
aspetti che ha poi trasferito nella sua poetica e nel personalissimo humor ed è
forse per questo che De Luigi, fra i giovani artisti, è colui che oggi
maggiormente riesce ad interpretare e caratterizzare quella ‘riminesità’ di
matrice tradizionale, contestualizzata e resa più che mai attuale dalla vena
comico-intimista cui lo porta la modernità e forse anche il suo più autentico
modo di essere ‘un Aldo qualunque’, affascinante quel tanto che basta, sempre
piacevole da ritrovare. Così, oltre a dir di lui tutte le cose belle e
importanti che ha fatto e che fa, dai Mai dire Gol (e Mai dire... tutto il
resto) alla sit-com Love Bugs, passando per la conduzione dell’ultimo Festival
Bar, senza dimenticare il cinema, la radio, il teatro e il tanto cabaret, è con
questo spettacolo tutto riminese che vogliamo raccontare Fabio De Luigi,
raccontando parallelamente una bella pagina di Romagna e qualche atto della sua
commedia quotidiana.
Del conterraneo Baldini, milanese
d’adozione dal ’55, Fabio dice: “E’ il poeta più teatrale, la sua opera è una
sorta di pièce, di lui mi hanno sempre colpito la fantasia, il ritmo, la
capacità scenica. Era un timido, Lello Baldini, un uomo riservato, ma con una
padronanza teatrale che lo rendeva un attore fenomenale, ma soprattutto era il
miglior interprete dei propri testi.” E sulla scena, accompagnato dalle musiche
di Andrea Alessi, ma anche a voce nuda, Fabio incatena lo spettatore per due
ore di poesie che sanno d’amaro, di vero, di vita. Sono le poesie tratte dalle
raccolte ‘Ad Nota’ (di notte) ‘Ciacri’ (chiacchiere) ed ‘Intercity’. Lui le
interpreta come un tempo avrebbe fatto l’autore, strappando anche qualche
sonora risata o piuttosto un sorriso mesto di riflessione sull’ineluttabilità
delle cose della vita. Fabio legge quei testi dialettali con una disinvoltura che
la dice lunga sulla sua dimestichezza con la lingua dei nonni. “Certo – ammette
- il dialetto si parla ancora qualche
volta in casa mia, come in tutta Santarcangelo, del resto. Il dialetto è la
lingua della strada, degli amici, del bar: lo si usa quando si vuol dare enfasi
ai racconti, per parlare di politica e di sport. E poi, come diceva Raffaello,
certe cose accadono in dialetto!” E la provincia, quella terra di confine fra
le cose che accadono alla maniera dialettale, continua ad avere effetto sul
giovane attore che oggi passa gran parte del tempo nella grande città, a Milano
anche lui, come Lello Baldini, e come Baldini, anche Fabio De Luigi porta con
sé, nella metropoli, lo spirito di questa sua terra antica di tradizioni e di spunti
solari da cui attingere a piene mani. “Nello scegliere i testi che avrei
interpretato mi sono fatto consigliare da mio padre, ma è stata dura!
Scorrevamo e leggevamo le diverse poesie e convenivamo: ‘questa ci vuole,
questa non può mancare, quest’altra non si può non fare...’ Ho avuto la fortuna di conoscere Baldini, -
prosegue De Luigi - ma purtroppo non tanto quanto avrei voluto. Ci siamo sempre
ripromessi di mangiare una pizza insieme. E’ colpa del tempo: si pensa di averne
sempre tanto davanti. Alla fine ti accorgi di non aver fatto in tempo.”

Fabio De Luigi da bambino giocava
a baseball sulle strade di Santarcangelo, lo dichiara in una bella intervista
rilasciata qualche anno fa a .... Da grande giocava in A1 vestendo la maglia
dei Pirati di Rimini. Il Baseball, pur non praticandolo più in maniera
professionistica, rimane il suo secondo amore dopo lo spettacolo (famiglia e
fidanzata a parte). La sua carriera d’artista comico inizia nel 1990, anno in
cui si presenta al concorso La Zanzara d’Oro ed esordisce a soli ventiquattro
anni allo Zelig di Milano -teatro da cui
poi ha preso avvio l’omonima trasmissione televisiva- con lo spettacolo ‘Il fosforo fa bene alla memoria’. Fra i
suoi personaggi nati e cresciuti all’ombra di quella ribalta e dei vari Mai
dire Gol, Mai dire Maik, Mai dire Grande Fratello, chi può dimenticare le
performance del cantante Olmo, del supereroe Medioman, dei pittoreschi Primo
Drudi, Petrunio, Bastilani, del modello Fabius e poi del nobile Guastardo della
Radica, dell’ingegner Cane autore del famoso progetto del ponte sullo stretto,
dell’imitazione di Miguel Bosè e di quella di Patrik? Nel 2002 a Rimini Fabio,
insieme a Paolo Cananzi, Paolo Cevoli e Martina Colombari, dà vita ad uno dei
Capodanni di piazza più belli degli ultimi anni. Noi c’eravamo quella notte di
fine anno, quando i suoi ‘tipi’ più noti si sono alternati sul grande palco di
piazzale Fellini ad un elegantissimo Fabius in smoking bianco che
magistralmente ha presentato uno spettacolo ispirato proprio alla riminesità.
Insieme ai quattro artisti d’origine riminese c’erano anche altri personaggi,
non noti al grande pubblico, ma pilastri di questa città che lo spettacolo
voleva omaggiare. Fra questi ricordiamo il compianto Marco Magalotti e la nota
voce della Pubblifono, Betty Miranda.
Nel 2002 insieme al gruppo di
sempre, La Gialappa’s, ha inciso il CD ‘Olmo&Friends’ per sostenere Emergency
di Gino Strada ed aiutare i medici in Afghanistan che arrivò ai vertici della
classifica italiana. Fra le canzoni dell’album le pietre miliari della sua
storia: ‘C’è simpatia’, ‘Piccolo fiore
bugiardo’, ‘Dimmi cosa pensi di me’.
Fabio passa dal piccolo al grande
schermo con estrema duttilità, recitando anche in teatro. Dopo ‘Matrimoni’ di Cristina Comencini, è
coprotagonista, insieme a Claudio Bisio, di ‘Asini’
di Antonello Grimaldi. Poi è la volta di ‘Il
Partigiano Johnny’ nell’adattamento cinematografico di Guido Chiesa del
Romanzo di Beppe Fenoglio, di ‘E’ già
ieri’ di Giulio Manfredonia e di ‘Un
Aldo qualunque’ di Dario Migliardi che esalta la vena malinconica e
dolcemente comune di questo ragazzo di periferia che, da romagnolo doc riesce
verisimilmente ad interpretare il ragazzo pugliese protagonista della storia.
Nel 2004 oltre ad interpretare il ruolo del
protagonista del film ‘Ogni volta
che te ne vai’, ricopre anche quello di sceneggiatore, scrivendo una
commedia ambientata in territorio riminese, costellata di personaggi
stravaganti, abitanti di un piccolo mondo antico. Lì c’è Orfeo che sogna di
diventare un cantante di liscio. E’ un ritorno alle origini totale: anche Olmo
era un cantante e il liscio è la musica di questa terra, di questa riminesità
che avvolge sulle note dell’orchestra di Raoul Casadei. Al fianco di Stefania
Rocca, Fabio recita in teatro nella commedia ‘Irma la dolce’ e durante l’ultima stagione porta in scena ‘Il bar sotto il mare’, per la regia di
Giorgio Gallione, piece che ha reso celebre Stefano Benni e rivelato la
maturità artistica di Fabio De Luigi che oggi viene salutato dalla critica uno
dei migliori e più completi artisti italiani.
Da due anni Fabio veste i panni
del commercialista fidanzato prima della Hunziker e poi della Canalis che ogni
sera, nella striscia delle diciannove, porta alla ribalta, in maniera
paradossale ma paradossalmente verista, una vita di coppia che è un eterno
sketch (o match?) Fra amore e sopportazione reciproca, ciascuno, al fine, si
può riconoscere nelle vicissitudini quotidiane dei due famosi protagonisti. Di Fabio le partner della sit-com dicono che è
un grande professionista e Fabio ammette “Sono molto pignolo nel lavoro.
Preciso e scrupoloso. Credo nella preparazione metodica, e anche se la capacità
d’improvvisazione non può mancare ad un attore, il palcoscenico è l’ultimo atto
di un processo basato sulla preparazione.”
Noi lo eleggiamo all’unanimità uno
dei nostri miti e restiamo in attesa che si comperi finalmente quel
bell’appartamento di fianco al nostro.

mercoledì 1 agosto 2012

La forza e il coraggio. Una bella storia di famiglia.

Le donne che hanno fatto la storia di Viserba…
Pensieri sul volume
di Donata Ciavatti

Un omicidio storico e letterario è all’origine dei fatti
narrati: la morte di Ruggero Pascoli, padre del poeta Giovanni; un delitto per
tanto tempo avvolto nel dubbio e nell’omertà, complice una ambientazione
storico-sociale di stampo feudale.
A questo avvenimento di cronaca si intreccia il destino di
una famiglia di San Mauro, quella di Pietro Giani, bisnonno dell’autrice, che,
nel 1880 viene condannato al carcere a vita per l’omicidio (sembra) di un
fattore. Era Ruggero Pascoli quel fattore? Oppure uno dei suoi successori alla
direzione della tenuta dei Torlonia?
Né l’uno, né l’altro, avrebbero chiarito il tempo e la verità,
liberando dopo 23 anni di reclusione un innocente, risarcito di qualche moneta
d’oro per l’errore giudiziario.
La famiglia Giani se ne va con Bianca e Stella, nipoti di
Pietro, ultime a portare questo cognome, ma la sua storia vive fra le pagine di
Donata, figlia di Bianca, che si leggono tutte d’un fiato.
La sintassi limpida e scorrevole, il ritmo, la successione
ben concatenata delle Parti in cui è suddivisa la narrazione, il realismo senza
interferenze edulcorate o piuttosto la resa sobria ai sentimenti (ma solo come
riconoscimento di un valore più alto dei fatti) donano al racconto quel
carattere energico che il titolo ben esprime. Il coraggio è la forza degli
umili, la dignità di chi fa la storia in silenzio, senza enfasi ridondanti e
pur con la saggezza di chi sa vivere.
Sono le donne, in questo libro di Donata Ciavatti, le vere
eroine, coloro che accanto ai fatti più vasti della storia (dall’episodio
Pascoli alla Guerra, alla Ricostruzione) forgiano la propria esistenza con
passione e coraggio. Sono figure da romanzo, che scelgono senza conformismi e
pregiudizi, che affermano il proprio individualismo e non si arrendono di
fronte ai drammi e alla fatica. Né il carcere, né il lutto, né la guerra, né i
debiti hanno il potere di annientare donne siffatte. Sono il simbolo di una
società di stampo matriarcale che si
genera solitamente in tempo di guerra, quando, lontani gli uomini, alle donne è
affidato il comando, della famiglia, degli affari… o in quelle società dove
l’economia è basata sul lavoro che tiene gli uomini lontani da casa per lungo
tempo, come marinai e pescatori. In questa famiglia, in cui sembrano nascere quasi
esclusivamente figlie, le donne attraversano le epoche storiche vivendone
appieno ogni aspetto, protagoniste fino in fondo nel bene e nel male, con
fierezza, mai con rassegnazione, ma con lo spirito guerriero che si dipana
nelle sei Parti in cui è strutturato il libro e che
compongono una geometria del coraggio che dà ordine e simmetria a tutto
l’impianto narrativo.

Leggere. Perchè mi hanno ucciso

Coraggioso Dossier

Dapprima si pensò al Tallio, poi, poche ore dopo il
decesso la diagnosi corretta: avvelenamento da Polonio 210. Scotland Yard, da
subito, avviò le indagini con l’ipotesi di omicidio... Sulla storia di
Aleksandr Litvinenko, torna il giornalista sammarinese Luca Salvatori con
questo libro dossier.

Il giornalista sammarinese Luca Salvatori, attualmente alla
conduzione del tg della televisione di stato della Repubblica, insieme a Maxim
Litvinenko, studente russo e fratello del più noto Aleksandr, cura l’edizione
di questo libro dossier dedicato alla vicenda e alla morte di Aleksandr
Litvinenko. Già tenente colonnello dell’esercito russo, poi trasferito al
controspionaggio militare, prima nel Kgb e successivamente negli attuali
servizi segreti: l’Fsb, l’ufficiale aveva rinunciato ai gradi e alle
onorificenze con formale lettera aperta, indirizzata al Comandante Supremo,
Presidente Vladimir Putin. Una lettera piena di sdegno per la natura violenta e
corrotta di quell’esercito, al quale non voleva più appartenere. In fuga dalla
ex Unione Sovietica, nel novembre del 2000 aveva chiesto asilo politico a
Londra e nel 2006 aveva ottenuto la cittadinanza britannica.
Aleksandr Valterovich Litvinenko è morto a Londra nel
novembre del 2006, ucciso dal polonio 210 un isotopo rarissimo e costosissimo. Su
questa morte è stata aperta un’indagine non ancora conclusa. “Perché mi hanno
ucciso” tenta di rispondere proprio a questa domanda, prendendo le mosse dall’attività
di propaganda dissidente svolta dal protagonista nei confronti del governo
Russo e del Presidente Putin, riportando fedelmente i testi di alcune
interviste da lui rilasciate negli ultimi anni ed articoli giornalistici a sua
firma contenenti accuse precise circa gli attentati ai palazzi di Mosca del
1999, sulla strage del teatro di Dubrovka del 2002, sulla tragedia di Beslan
del 2004 e sull’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja. Nelle
dichiarazioni e negli scritti di Litvinenko, nomi di personaggi di primo piano
vengono legati col filo rosso a quei tragici fatti di cronaca rivelando la
natura politica dei Servizi Segreti come struttura di potere ed indicandone le
gravi responsabilità. Emergono tesi inquietanti e foschi scenari di politica
internazionale, come quella che mai, dal 1989 in poi, il mondo era tornato ad
essere così vicino ad una nuova guerra fredda.
Aleksandr è stato ucciso. E di quella morte annunciata (per
contagio radioattivo) vengono ricostruiti gli ultimi atti, dei giorni che
precedettero la fine. Secondo Scotland Yard, che ha condotto le indagini ed
ipotizzato l’omicidio, la contaminazione dev’essere avvenuta al Millennium
Hotel dove Aleksandr ha incontrato tre ex agenti del Kgb. Altro incontro
‘pericoloso’ potrebbe essere stato quello con Mario Scaramella, oppure egli
servì ai servizi segreti solo come ‘diversivo’. Ma dietro a tutti c’è l’ombra
dell’uomo che egli ha sempre accusato apertamente e contro il quale apertamente
ha combattuto la sua battaglia. Fino alla morte.

Leggere. Cibi e Tradizioni.

Cattolica a Tavola

La tavola è una magia attorno cui ruota la storia di ognuno, di ogni luogo e di ogni tempo. “Ma
la catena di trasmissione di saperi – come dice Gigliola Casadei – rischia di
essere interrotta da stili di vita e da alimentazioni che hanno sposato logiche
industriali.” Questo libro vuole essere un modo per ricordarsi chi siamo.

Fra le tante cose per cui è bella Cattolica, le iniziative,
le attività, la forma stessa della città, annovero volentieri questa recente
pubblicazione curata – direi con amore- da Gigliola Casadei fin nei minimi
dettagli e voluta dall’Amministrazione Comunale.
Cibi e Tradizioni – parte del più vasto progetto “Cattolica
da Gustare” - è un bel libro che rinnova l’omaggio a questa terra di vini, di
oli, di formaggi, di erbe aromatiche, di dolci delle feste e di ricette che la
tradizione ha consacrato e tramandato grazie alla sapiente mano e alla
lungimiranza delle azdore. Fin dalle
prime battute, dalla presentazione di Antonio Ruggeri, assessore alla pubblica
istruzione, è la memoria a condurre le emozioni e la sua è un’autentica e
personalissima pagina che introduce con immediatezza nel ‘vivo’ dell’argomento.
La memoria è il luogo dove i sensi hanno accumulato tutto il
nostro sapere quotidiano. Lì risiede la saggezza della tradizione e i profumi e
i sapori fanno da trama ai ricordi
migliori. A Maria Lucia De Nicolò si deve la scientificità dell’argomento, la
conoscenza del prodotto e della sua storia. Con equilibrio si alternano i
contributi di Stefano Cerni sul vino, l’olio e il formaggio e di Giovanni
Lerker sulle cotture e le proprietà nutrizionali degli alimenti. A rendere più
preziosa la pubblicazione sono le stampe antiche e le immagini botaniche
offerte dalla British Library di Londra, dalla Biblioteca Marciana di Venezia,
dalla Biblioteca Casanatense di Roma e da collezioni private, perché le buone
erbe spontanee, cui Adriano Mattoni e Gigliola Casadei dedicano un intero
capitolo, hanno avuto, nella tradizione, un ruolo importante non solo per la cucina;
coltivare ed utilizzare le erbe officinali ed in particolare quelle aromatiche
infatti, “significava possedere la chiave della vita”. E poi è la volta delle
minestre e dei dolci, come il ciambellone,
il miacetto, le ciaramine, di cui –per chi avesse voglia di cimentarsi- vengono
riportate anche le ricette originali. L’ultima parte del libro è dedicata ai
protagonisti di oggi. Custodi di quell’antica saggezza popolare, i nuovi
interpreti del gusto restituiscono ai palati più fini della modernità i sapori
del tempo che fu, tradotti secondo la gioiosa arte dell’innovazione e della
sperimentazione. Frutto del lavoro di ricostruzione storica della giornalista
Wilma Galluzzi, quest’ultima sezione contiene alcune belle storie cattolichine.
Uomini che hanno legato ai sapori e all’arte della ristorazione la propria
fortuna: Paolo Staccoli dell’omonima pasticceria e caffè; Raffaele Renzi detto
Lino, patron dell’osteria La Puràcia, Giancarlo Venturini, patron del
Ristorante Marittimo e Piergiorgio
Pazzaglini del Ristorante ‘Da Antonio’ l’Osteria del Buongustaio. Signori del
palato e della memoria, per trasmettere al futuro la miglior tavola della
nostra storia.

Cibi e tradizioni ... e c’è di mezzo il
mare. AA.VV
a cura di Gigliola Casadei
pagg. 139
Comune di Cattolica

domenica 29 luglio 2012

Note d’Autore


(intervista al M° Guido Zangheri - pubblicata su Rimini IN Magazine)

Rimini e la Musica. Un sodalizio d’affetto e d’affinità sul quale non tramonta il sole. E ‘sulle scale di un pianoforte’, l’incontro con il M° Guido Zangheri è un occasione per parlare di due importanti fucine di cultura: il Liceo Musicale Lettimi e l’Università Aperta intitolata a Giulietta Masina.

La musica è un ‘ars’, nel senso antico del termine, ritenuta fin dall’epoca classica di primaria importanza nella formazione dell’uomo.
E se per Pitagora esiste una stretta relazione fra musica e animo umano, musica e matematica per tanta parte della filosofia successiva presiedono all’ordine e all’armonia del Cosmo. Teorie affascinanti per una disciplina altrettanto affascinante che a Rimini trova nel M° Guido Zangheri uno dei suoi massimi rappresentanti.
Musicista, insegnante di pianoforte, professore di lettere, critico di musica, giornalista, ex direttore del Liceo Musicale Lettimi, Presidente di Università Aperta e bravo podista, sono le qualifiche che gli hanno valso l’essere annoverato fra quei riminesi esimi, meritevoli di far parte di una galleria di tipi illustri: quelli immortalati dal caricaturista Giuma. E Guido Zangheri, classe ’41, sposato con una pianista e padre di tre figli tutti musicisti (oltre alle diverse professioni che esercitano), a quella caricatura ci tiene! Perché è un uomo che sorride, che ama scoprire affinità con il suo interlocutore, esprimersi con semplicità, comunicare e prendersi con saggia ironia.
Le sue note si rincorrono sul pentagramma di una vita dedicata alla Musica. “Ho frequentato il liceo classico Giulio Cesare – racconta – poi mi sono laureato in lettere moderne con una tesi su Amintore Galli, musicologo e musicista cui è dedicato il teatro della nostra città. Contemporaneamente mi sono diplomato al Conservatorio di Pesaro. Era il ’64. Nel ’65 ho iniziato ad insegnare pianoforte al Liceo musicale Lettimi di Rimini.”
Il Lettimi è stato la casa dei migliori sogni, per lo più realizzati, delle soddisfazioni del Maestro che, nel ’74 all’età di 33 anni ne ha assunto la direzione. “Sono state una serie di circostanze favorevoli, a portarmi, piuttosto giovane, alla guida del Liceo, incarico che ho mantenuto fino al 2005.” Durante questi anni sono stati raggiunti traguardi importantissimi, dei quali vado fiero. Primo fra tutti la parificazione con i conservatori. Abbiamo dovuto lavorare tenacemente per rientrare nei parametri di legge: portare le classi da due a sette, aumentare il numero degli iscritti, formare un’orchestra, un coro…”
L’impegno, preso con se stesso e con la sua Euterpe (fra le nove muse colei che sovrintende l’arte della musica), era di dare a Rimini quella scuola prestigiosa che oggi vanta anche un Auditorium e che passò in quegli anni da 50 a 400 iscritti in media. Concerti di Mozart, Behetoven, Bartoc, Ravel hanno impreziosito le stagioni del Lettimi e composto una storia dalle belle note in un crescendo di traguardi e successi. Fra gli anni Settanta e Ottanta il Lettimi ha vissuto la sua fase di maggiore espansione. Negli anni Novanta l’Amministrazione Comunale, consapevole del ruolo raggiunto dal liceo musicale e della sua importante funzione all’interno della città, ha formalizzato al Ministero della Pubblica Istruzione la domanda di pareggiamento ai Conservatori di Stato, riconoscimento pervenuto il 9 gennaio 2001. Il lettimi, Istituto di Alta Formazione Artistica e Musicale, ha ottenuto nel 2004 anche un ulteriore riconoscimento con l'approvazione da parte del MIUR del proprio progetto di Diploma Accademico di II livello (biennio specialistico in discipline musicali di livello universitario)
Il Professore, elegante nei modi e nella gestualità come si conviene all’uomo che, seduto al pianoforte fa vibrare gli accordi grandiosi dell’organista di Waimar, si guarda indietro con soddisfazione e volta pagina sul suo leggìo. E’ Bach il suo Autore e quella musica così affine alla scienza. “Le pagine di Bach –spiega- sono monumenti di drammaticità intensa e potenza comunicativa, culminanti in quella che, per me, è la sua opera più straordinaria: la Passione secondo San Matteo.”
Il suo capitolo di oggi s’intitola a Giulietta Masina e a Federico Fellini. E’ l’Università Aperta di cui Guido è Presidente e Direttore. Un’Associazione culturale cittadina di grande pregio ispirata ad un modello educativo europeo e fondata sul concetto dell’educazione continua, del sapere che non ha mai fine. “Storia dell’Arte, della musica, lingua italiana, inglese e tedesca, storia contemporanea, psicologia, sociologia, con seminari e incontri, sono le materie di studio che chiunque, a qualsiasi età, può continuare ad apprendere ed approfondire. – spiega Zangheri - Le discipline umanistiche sono l’anima della cultura, del comportamento libero e creativo, sono il patrimonio di fantasia ed emozioni a fondamento dell’identità e dell’intelligenza di ogni individuo.”
E per finire, colui che si era laureato con una tesi su Amintore Galli e che si era battuto, negli anni 80 con la raccolta di 10.000 firme per ottenere il famoso concorso che portò al progetto Teatro dell’Architetto Natalini, esprime su questo punto il suo pensiero di oggi. “Desidero vederlo realizzato – dice- Se ha prevalso la linea del com’era, dov’era, ben venga, purchè il Teatro venga ricostruito. La cultura ha le sue sedi, che si chiamano Università, Teatro… Ha le sue espressioni: gli eventi, gli spettacoli di alto profilo che Rimini sta riproponendo. Sono tutti stimoli importanti di cui la nostra città ha un gran bisogno.”
E la città ha un gran bisogno di questi uomini, intellettuali veri che, attraverso l’impegno e la cultura, propongono ai giovani modelli intramontabili.

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Cenni storici del Liceo Lettimi
Fin dalla metà del secolo scorso, essendosi diffuso notevolmente a Rimini lo studio della musica, il Municipio incaricò il M° Pedrotti, direttore del Liceo Musicale di Pesaro, di dare un nuovo assetto organizzativo alle Scuole di Musica della città. Venne Venne istituita una nuova scuola di Musica con le cattedre di canto, armonia e pianoforte, strumenti ad arco e a fiato e i posti disponibili circa un ottantina. Le finalità della scuola erano di formare suonatori per la banda e coristi per gli spettacoli d'opera. Ottimi musicisti uscirono dalla scuola, distinguendosi negli esami sostenuti presso i Conservatori di Pesaro, Bologna e Parma. Durante la direzione del M° Abbati, il M° conte Giovanni Lettimi, artista e pianista di rinomata fama, donò al Comune il proprio palazzo gentilizio come sede della scuola. Una sede prestigiosa e storica con una fastosa sala di rappresentanza per i concerti affrescata dal pittore faentino Marco Marchetti, nel 1579.
Nel 1930 l'ordinamento interno della scuola fu equiparato ai Licei e ai Conservatori di Musica Statali. Sei sezioni costituivano l'intero corso degli studi e gli alunni erano oltre 80. Nel 1932 anche per suo interessamento fu restaurata dal pittore concittadino Gino Ravaioli, la grande sala di rappresentanza della Scuola, restituendola agli splendori dell'antico fasto. Nello stesso anno la scuola si arricchì di un grande Organo della ditta Balbiani di Milano che completò la dotazione strumentale della scuola. Nel 1941 la Scuola divenne Liceo Autorizzato.
Le tragiche vicende belliche con i violenti bombardamenti, distrussero la cinquecentesca casa Lettimi e tutta la suppellettile della Scuola. Passato il fronte il M° Cima con quello che era stato possibile recuperare, la riaprì prima all'ultimo piano di palazzo Gambalunga, poi nei locali adiacenti la sala del Ridotto del Teatro Comunale. Dopo la direzione del M° Egidio Araldi e del prof. Italo Roberti, nel 1974 il prof. M° Guido Zangheri, ex allievo del Liceo, veniva incaricato della Direzione mantenuta fino al 31/3/2005, data del collocamento a riposo, ottenendo storici e prestigiosi risultati coronati dal Pareggiamento e dalla istituzione del Diploma Accademico di II livello. Attualmente la direzione è affidata al Prof. Enrico Meyer, titolare dal 1982 della cattedra di Pianoforte Principale.
tratto da G.C. Mengozzi - Teatro fra Ottocento e Novecento -
LE SCUOLE MUSICALI Estratto da "Storia di Rimini" dal 1800 ai nostri giorni"
Bruno Ghigi Editore - Rimini 1980

L'uomo sulle barricate

(intervista a Don Oreste Benzi)

Un uomo sulle barricate della storia moderna. Di quelli che fanno discutere e riflettere, che provocano rivoluzioni con la parola e l’esempio.


Il pastrano nero sulla tonaca modesta ed il berretto calato sui capelli candidi rendono inconfondibile la figura dall’incedere svelto. Il sorriso aperto e la parola franca richiamano l’attenzione di coloro che, avendolo riconosciuto, si affollano attorno a lui. Allora Don Oreste Benzi li saluta tutti nel modo consueto, mettendo loro la mano destra sulla fronte in un gesto che contiene l’affetto di un bacio, il calore di un abbraccio e il valore di una benedizione. Questo signore, che ricorda nell’aspetto ruvido e buono, il parroco di campagna di pellicole in bianco e nero, è in verità uno degli uomini più cosmopoliti dei nostri giorni; uno che percorre migliaia di chilometri al mese, che si sposta per mare, per terra e per cielo ai quattro angoli della terra, che dorme pochissimo: si alza all’alba, studia e legge fino a notte inoltrata; uno che scrive libri, che parla alle persone cercando di farlo nella loro lingua, che sbraita contro le ingiustizie del mondo dalle trasmissioni più seguite in tivù, che promuove campagne contro l’emarginazione, la droga, la prostituzione, che ha combattuto più di una battaglia e ha fatto il ’68 come il più agguerrito rivoluzionario nel nome della fede, della carità e dell’amore.
Don Oreste è nato il 7 settembre del 1925 a San Clemente, un paesino dei dintorni riminesi, da una povera famiglia di operai, settimo di 9 figli.
“La povertà della mia infanzia – racconta il parroco – non è mai stata condizione di infelicità. Anzi la ricordo gioiosa, con le canzoni di mia madre a far da colonna sonora sulle immagini di noi bambini che correvamo incontro al papà quando la sera rincasava dal lavoro.”
Ci sono ricordi scolpiti nella memoria, situazioni, parole e sguardi che hanno assunto, col tempo e la ragione, valore di metafore per chi della vita andava indagando il senso più profondo. Sono storie nella storia, piccole parabole che danno ritmo alla narrazione. La prima riguarda la vocazione. “Credo di averla avuta dentro da sempre. Ma mia madre e la mia maestra Olga certo sono state buone guide di un cammino cristiano. La prima volta che ebbi piena consapevolezza che avrei fatto il sacerdote fu in IV elementare. La maestra ci aveva parlato di grandi uomini: i pionieri, gli scienziati, i sacerdoti. Ed io ero rimasto affascinato da tutte tre queste figure, ma in particolare dall’ultima. Quel giorno decisi che avrei seguito quel cammino.” ‘A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti...’ sosteneva Foscolo e di fatto, le imprese gloriose muovono l’animo degli uomini audaci ad emularne l’esempio.
La seconda riguarda la condizione umana da cui ha origine l’emarginazione: la sensazione di non valere.
“Una sera mio padre fece più tardi del solito. – racconta – Quando arrivò a casa, spiegò che aveva aiutato un uomo finito con l’auto nel fossato. Le automobili erano mosche bianche a quel tempo e l’uomo doveva certamente essere qualcuno di importante per possederne una. Per ringraziare mio padre dell’aiuto, gli aveva dato una mancia di due lire ma soprattutto, ci disse, gli aveva stretto la mano! Quella stretta di mano, che significava considerazione e rispetto, lo aveva colto impreparato, lo aveva gratificato e stupito come fosse qualcosa che egli non credeva di meritare. In quel momento seppi che nella vita avrei sempre lottato perché la consapevolezza di valere fosse una condizione imprescindibile dell’uomo.” Ogni uomo e donna che incontra, in carcere, sulla strada, nei centri sociali, nelle stazioni, nei villaggi persi nel cuore di continenti stranieri... possiedono per Don Benzi il valore e la ricchezza interiore capaci di elevarli dall’abbandono, dalla disgrazia, dalla sofferenza in cui versano purché essi trovino dentro di sé il coraggio di ‘crederci’.
La terza metafora riguarda proprio la fede, ed è il racconto di un lungo viaggio intrapreso sul finire degli anni Cinquanta, da cui nacque la casa Madonna delle Vette.
“Il mio desiderio è sempre stato, fin dall’inizio del cammino, quello di andare incontro ai giovani e capivo che il solo modo per farlo poteva essere quello di stare in mezzo a loro – Don Oreste ha insegnato per 26 anni nei licei Giulio Cesare e Serpieri di Rimini – per vivere le loro paure, comprendere dove e perché nasce la disistima, cosa origina la ribellione... E accompagnarli nella scoperta dell’umanità, cercando di trasmettere loro idee travolgenti. Passare cioè dal cuore per raggiungere le loro menti...” Fra le rivoluzioni che il parroco portò fra la sua gente, ci fu anche quella delle vacanze, ovvero un modo moderno ed accattivante di stare insieme divertendosi, scoprendo il mondo e le sue meraviglie. Non dimentichiamo che erano gli anni Cinquanta. Un giorno, con lo sguardo rivolto alle meravigliose vette del Catinaccio, al giovane parroco riminese venne l’idea di costruire in quel luogo, così vicino a Dio, una casa per le vacanze dei suoi ragazzi. Ma dove trovare i soldi per dare fondamenta al progetto? La diocesi di Rimini lo direzionò verso gli Stati Uniti che, sul finire degli anni Cinquanta, continuavano ad essere una grande risorsa per la ricostruzione – o costruzione che dir si voglia. “Nel 58 arrivai nel Connecticut per cercare, fra Stati Uniti e Canada, i fondi necessari alla costruzione della casa. Il Vescovo di Boston mi accordò 25.000 dollari ed io proseguii il mio cammino alla volta di New York. Chiedere soldi non era legale, ma la questua per i negozi della capitale poteva essere davvero fruttuosa, cosi, insieme al mio collega, decisi di tentare. Le cose per un po’ andarono bene, ma un giorno il titolare di una gioielleria ci chiese specifiche referenze altrimenti avrebbe chiamato la polizia. In quel momento, misi la mano in tasca e trassi il mio rosario. Lui di fronte a quel simbolo cristiano cambio atteggiamento, credette alla nostre parole e al nostro progetto italiano e mi segnalò delle aziende che avrebbero potuto agevolare la nostra raccolta. Riuscii ad aggiungere altri 10.000 dollari a quelli datomi dal Vescovo di Boston che consentirono di costruire il nostro albergo sulle dolomiti e che chiamai ‘Madonna delle Vette’.”
Poi ci fu il 68. E Don Oreste lo visse con lo spirito battagliero del contestatore, in prima linea contro le ingiustizie, le sopraffazioni, le chiusure e le discriminazioni.
“Il Sessantotto e i primi anni Settanta furono anni di grandi battaglie – prosegue – di occupazioni, di notti trascorse con i politici ed i parlamentari di allora a dar voce alle nostre ragioni. Scoprii una cosa nuova, inaspettata e straordinaria: che pur parlando lingue diverse volevamo le stesse cose. Anche Cristo, d’altra parte, era stato un rivoluzionario, un uomo nuovo che ribaltò la visione del mondo. Scoprii che, tutto sommato, eravamo dalla stessa parte della barricata. Ho contestato molto nei confronti delle istituzioni: ho marciato contro l’Azienda Turistica della Valle quando mi dissero che non potevo portare là i ragazzi portatori di handicap perché ‘avrebbero dato fastidio’ al turismo. Ho occupato per tre giorni la Usl quando volevano chiudere a Rimini il reparto di neuropsichiatria infantile; ho manifestato in piazza con 3000 giovani per ottenere quarantadue case per i poveri e ho sempre vinto. Alla fine ho sempre ottenuto la giustizia che cercavo.”
Del 68 è anche la fondazione della Comunità Papa Giovanni XXIII che oggi ha case famiglia in tutto il mondo. Nell’80 iniziò l’esperienza fra i lebbrosi e la prima missione in Zambia, poi in Tanzania, in Kenya, in India, in Bangladesh... “Perché il dovere di noi cristiani è quello di crescere come coscienza di popolo e fare le rivoluzioni che servono perché la devozione, senza la rivoluzione, senza cioè una missione da compiere, non basta. Bisogna darsi da fare, con energia, con costanza, per portare fra gli uomini più armonia, fra i popoli più giustizia ed equità ma soprattutto, fra gli ultimi, la speranza e la consapevolezza di non essere soli.”
‘Ehi, brother! Ehi, sister... Do you love Jesus?’ chiede Don Oreste alle persone che incontra sulle strade ‘della notte’ loro lo guardano perplessi, ma non si allontanano, lo accolgono fra loro e ascoltano quelle parole diverse, amiche... Poi magari ciascuno riprende il proprio viaggio notturno, ma con una consapevolezza nuova e un nuovo amico, col berretto calato sui capelli candidi e il pastrano nero abbottonato sulla tonaca umile. Lui li benedice alla sua maniera e a passo svelto continua la sua marcia attraverso un nuovo campo di battaglia.


* Si ringrazia per le immagini di repertorio la comunità Papa Giovanni XXIII e l’Editore Sempre

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“Onora tuo figlio e tua figlia” è il provocatorio titolo dell’ultimo libro scritto da don Oreste Benzi, presente da qualche settimana nelle librerie. In un periodo in cui genitori, insegnanti ed educatori si lamentano di bambini e adolescenti che non sanno rispettare gli adulti e le regole della convivenza civile, questo libro propone un cambiamento di prospettiva: sono i piccoli a dover subire le conseguenze di scelte fatte da adulti spesso irresponsabili.
Don Benzi parte da frammenti di vita vera raccolti in tanti anni d’instancabile apostolato tra famiglie di ogni estrazione sociale, per inoltrarci nelle gioie e nelle sofferenze dei piccoli, nei drammi e nelle speranze degli adolescenti, nel difficile quanto affascinante dialogo vitale tra gli sposi. Il risultato è un nuovo, intenso e vivace manuale d’amore per tutta la famiglia.
Il volume si trova in libreria oppure può essere richiesto direttamente all’Editore Sempre, tel 0442 626738, fax 0442 25132, email: sempreabbonamenti@apg23.org
Don Oreste Benzi, Onora tuo figlio e tua figlia, Ed. Sempre, pp. 204, € 12,00

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L’Associazione Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, è organizzazione ecclesiale dal 25 maggio 1983. Il riconoscimento fu ufficializzato dall’allora Vescovo della Diocesi di Rimini Mons. Giovanni Locatelli. Il 7 ottobre del 1998 l’Associazione viene riconosciuta come Associazione Internazionale Privata di Fedeli di Diritto Pontificio riconosciuta dal Pontificio Dicastero dei Laici. Da oltre trent’anni opera contro tutte le forme di emarginazione e discriminazione, in Italia e all’Estero. E’ presente in Albania, Australia, Bangladesh, Bolivia, Brasile, Cile, Cina, Croazia, India, Italia, Kenya, Romania, Russia, Tanzania, Venezuela e Zambia. Dallo statuto e Carta di Fondazione della Comunità si apprende che “si partecipa alla missione della Comunità vivendo la vocazione in ogni ambito e stato di vita: condividendo la vita degli ultimi; conducendo una vita da poveri; lasciandosi guidare nell’obbedienza; dando spazio alla preghiera e alla contemplazione; vivendo la fraternità secondo il Vangelo.” Oltre alle missioni, alle cooperative sociali e alle varie forme di condivisione, la Comunità è attiva sui fronti della scuola, nella professione e nell’azione sociale, si impegna per la pace e in progetti multisettoriali per l’autosviluppo dei paesi poveri. La comunità svolge anche attività editoriale attraverso vari strumenti divulgativi e del mensile Sempre.




Di padre in Figlio


(intervista a Andrea Muccioli, pubblicata su Rimini IN Magazine)

Avvocato e sociologo, padre di tre bambini ed appassionato cultore di vini e vitigni, Andrea Muccioli, che non vuole appellativi altisonanti e chiede di essere definito semplicemente ‘il responsabile’, è il leader di San Patrignano, colui che ha scommesso sull’eccellenza e sulla formazione professionale per restituire a giovani sconfitti il senso della dignità e del valore.

È un pomeriggio invernale a San Patrignano. Guardando quella ‘città’ che pare la rappresentazione dell’Utopia platonica, per ordine e armonia che vi regnano, le parole di Andrea Muccioli intrecciano i fili di tre storie parallele in una narrazione univoca: la sua vita, quella di Vincenzo Muccioli e quella della Comunità che guida dal 1995 quando, all’età di trentun anni, successe al padre al vertice di San Patrignano. Eredità pesante. Eppure lui, Andrea, ne ha amministrato con saggezza il valore, aggiungendogli la personale visione, compiendo il difficile passo di dare superamento nella continuità, affinché la scomparsa di Vincenzo Muccioli non significasse la fine di un’epoca e di una storia ma un passaggio di consegne nella direzione di un futuro che si costruisce insieme giorno per giorno. Il passato, invece, ha inizio a Rimini, sul finire degli anni Sessanta, primi anni Settanta, quando le vacanze si chiamavano ancora ‘villeggiatura’ e i turisti ‘bagnanti’.
“Durante l’estate i miei genitori gestivano l’albergo di famiglia – racconta Andrea – ed io e mio fratello Giacomo trascorrevamo le nostre vacanze come tutti i figli di albergatori: condividendo divertimento e spensieratezza con i figli dei clienti che, quella volta, soggiornavano a Rimini anche un intero mese. Nascevano amicizie che gli anni consolidavano e che ricordo sempre con piacere, insieme ai giochi e agli scherzi che inventavamo...”
Quando l’estate finiva, la vita continuava nella tenuta di famiglia a Coriano, dove ad ottobre iniziava la vendemmia ed era tutto un vociare a festa di bambini e di cani che correvano e si rincorrevano. “Mio padre amava i cani, li allevava da anni. Il suo allevamento aveva già allora una dimensione europea. Amava anche le sue vigne, anche se il nostro vino, allora, non era certo quello di oggi. San Patrignano era molto diversa, era il luogo delle feste, dove ci si ritrovava con amici e parenti per ammazzare il maiale, o insieme ai contadini per la vendemmia. C’era una gioia, un’allegria che mi sembra ancora di vedere, di sentire...” Le parole evocano immagini e sono tutte immagini di grande intensità. Andrea non le sceglie, le lascia libere di rappresentare i suoi ricordi d’infanzia e di trasmettere sensazioni all’ascoltatore. “Mia madre prendeva spesso parte ai nostri giochi, anzi, alcuni li organizzava lei, e con quale maestria! Mi ricordo per esempio del Coniglio Pasquale, una caccia al tesoro in cui lei nascondeva, disseminandoli per tutto il giardino, dolci e caramelle che noi bambini dovevamo trovare, in una caccia miracolosa che si prolungava fino a sera.” Di ricordo in ricordo gli anni dell’infanzia si compongono fino ad arrivare alla seconda metà degli anni Settanta, quando la vita iniziò a cambiare, dapprima piano piano, poi in maniera sempre più radicale e definitiva.
“Mio padre e mia madre, che sulle decisioni importanti erano sempre d’accordo, spesso si erano proposti di fare qualcosa per poter dare anche agli altri quella ricchezza, morale e materiale, che possedevano. E anche se all’inizio non c’era stato un progetto chiaro, una sorta di promessa aleggiava in attesa di prendere corpo. Iniziarono interessandosi di medicina alternativa insieme ad un gruppo di amici con la passione comune per quelle terapie che oggi vanno tanto di moda e si chiamano olistiche, pranoterapeutiche, fitoterapiche, orientali... Le mettevano a disposizione di chi ne aveva bisogno, in forma totalmente gratuita. Trent’anni fa però la mentalità era meno aperta e si guardava all’alternativo con sospetto. Mio padre venne definito ‘Santone’ con una accezione, direi, non positiva. Lui era piuttosto un uomo con una personalità carismatica ed una sensibilità molto spiccata, consapevole di doti un po’ al di fuori del comune, un uomo che per noi è stato un padre buono e presente, che mi ha insegnato tutto ciò che so e che mi ha trasmesso lo spirito con cui guardo ogni giorno la vita, lo stesso che anch’io m’impegno di trasmettere ai miei figli.”

Era il 1978 e Vincenzo Muccioli insieme ad un gruppo di volontari iniziò ad accogliere a San Patrignano i primi ragazzi affetti dal problema della tossicodipendenza con una idea di base: amarli come fossero stati loro figli e comportarsi di conseguenza. Nel giro di pochi anni gli ospiti della comunità divennero centinaia. Si diffondeva sempre più la consapevolezza che a San Patrignano il problema si poteva risolvere e in tanti chiedevano di entrare.
“In quel momento persi mio padre. Perché occuparsi di quei nuovi figli, tanto bisognosi di vicinanza e di tempo, occupava tutto il suo tempo e tutte le sue energie. Non tornava più a casa e la nostra in quel momento fu proprio una separazione fisica. Avevo 16 anni quando mia madre ci disse che era stato arrestato per sequestro di persona... Quei momenti difficilissimi sono scolpiti altrettanto a fondo nella mia memoria; per noi figli in quel momento si trattava di compiere un passaggio: soffrire della nuova condizione, oppure capirla e cercare in qualche modo di condividerla, di farla un po’ anche nostra. Devo dire che la decisione maturò in maniera naturale dentro di me; con il tempo imparai ad amare quella nuova famiglia come prima avevo amato quella esclusivamente mia. Cambiava la dimensione dei rapporti e anche il senso della vita: ho vissuto situazioni forti e drammatiche per un ragazzino, ho visto puntare su mio padre un coltello e lui risolvere la crisi con parole e abbracci... Le cose che puoi vedere qua in un solo giorno, fuori non le vedresti in un’intera vita.”
Gli anni successivi sono un susseguirsi di evoluzioni ed eventi che riguardano la Comunità: nel 1985 viene costituita la Fondazione San Patrignano, che raccoglie i liberi contributi dei sostenitori, l’anno successivo San Patrigno è riconosciuta come struttura di formazione professionale dalla Regione Emilia Romagna, nel 1990 la fondazione San Patrignano è riconosciuta Ente Morale dallo Stato italiano in seguito alla donazione con cui Muccioli e la sua famiglia cedono tutti i propri beni immobili alla comunità. Nel 1993 gli ospiti della comunità sono 1600 e l’anno seguente viene inaugurato il Centro Medico, una struttura in grado di rispondere a tutte le esigenze sanitarie degli ospiti e dotato di un reparto all’avanguardia nel trattamento e nella cura dell’infezione da Hiv e delle patologie ad essa correlate. In quegli anni, Andrea aveva studiato a Bologna e si era laureato in Giurisprudenza. Aveva viaggiato molto, con lunghi soggiorni negli Stati Uniti, in Canada, in Giappone, in sud America. “Per sei mesi l’anno m’impegnavo al massimo con lo studio, gli altri sei mesi li dedicavo a scoprire il mondo. Non viaggiavo in ‘business class’, anzi, il mio stile era quello del viaggiatore autentico, alle volte in autostop; dove arrivavo mi fermavo per qualche mese, lavoravo per mantenermi e conducevo una vita spartana, senza fronzoli. L’importante era conoscere il più possibile, fare esperienze diverse, imparare.” Nel 1988 in biblioteca aveva conosciuto Cristina, la fidanzata prima e moglie poi che, come Antonietta aveva fatto con Vincenzo, ha seguito Andrea in tutte le scelte di vita, non solo accettando, ma condividendo pienamente la missione cui la vita lo ha condotto e che oggi lavora come avvocato presso lo studio legale di San Patrignano.
“Dopo l’esame da avvocato, ho iniziato a lavorare in una società di ingegneria, la Snam Progetti, occupandomi di contratti internazionali, ma sentivo sempre più il bisogno di avvicinarmi a mio padre e alla sua missione, così un giorno sono andato da lui e mi sono messo a disposizione. Ho iniziato a lavorare qui come volontario con un progetto preciso: perseguire la via dell’eccellenza, della bellezza delle cose da comunicare ed esprimere anche all’esterno.”
A capo del nuovo ufficio commerciale, Andrea diede avvio alla commercializzazione dei prodotti bellissimi che vengono realizzati dai laboratori artigianali di San Patrignano, chiamò al suo fianco importanti manager e insieme elaborarono strategie di marketing e percorsi di sviluppo di alcuni settori, per esempio quello del vino.

Nel 1995 Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità muore. In quello stesso anno San Patrignano, guidata da Andrea, da vita insieme ad altre sette grandi comunità europee e americane a “Raimbow –International Association against Drugs” organizzazione non profit costituita oggi da 200 associazioni e strutture di recupero di tutto il mondo che si battono per la cultura della vita contro ogni forma di legalizzazione delle droghe.
L’anno successivo negli impianti di equitazione di San Patrignano si svolge la prima edizione del concorso ippico internazione “Challenge Vincenzo Muccioli” cui partecipano i più importanti cavalieri del panorama internazionale e che quest’anno, dopo aver ospitato il Campionato Europeo (2005) ha festeggiato il decennale.
Nel 1997 San Patrignano si accredita come “Organizzazione non governativa presso le Nazioni Unite con lo Status di “Consulente Speciale presso il Consiglio Economico Sociale dell’Onu e l’anno successivo Andrea Muccioli partecipa all’Assemblea Generale dell’Onu sul problema tossicodipendenze, svoltasi a New York.
Sul finire del secolo, gli ospiti in comunità sono 1800, Andrea prosegue anche gli studi e si laurea in Sociologia, le sue passioni sono: il figlio Lorenzo -che oggi ha nove anni e due fratellini, India di 4 anni e Iacopo, di 1 anno e mezzo - e i vigneti che stanno per diventare il fiore all’occhiello della Romagna, con le loro produzioni di Montepirolo e Avi (che significa ‘a Vincenzo’) che vengono giudicati eccellenti dalle migliori guide enologiche. Oggi, anche il Noi, annate 2003 e 2004, si aggiunge con onore alla prestigiosa cantina San Patrignano, la cui nuova struttura è stata inaugurata nel 2004. Oggi San Patrignano è una realtà produttiva importante, guidata da Andrea Muccioli, che non vuole appellativi altisonanti e chiede di essere definito, semplicemente “il responsabile”. La sua dimensione è cambiata, ma la missione è rimasta invariata da come Vincenzo Muccioli l’aveva pensata e voluta: basata sull’uomo e sulla sua dignità. “La dignità è ciò da cui è partito mio padre: il desiderio di restituirla a coloro che non vi credevano più. Lui mi ha insegnato ad essere un uomo che sceglie: i valori, i principi morali, la solidarietà. Questo tipo di uomo riesce ad essere coerente con la vita, con se stesso e con la propria coscienza anche nei momenti di difficoltà. Qui poi, dai ragazzi, ho imparato il prezzo del dolore e del sacrificio per tornare a guardare con fiducia alla vita; così mi impegno ogni giorno ad essere per loro un punto di riferimento -e loro lo sono per me- con imprecisioni, certo, con errori umani, ma questo bagaglio di vissuto, spero possa essere l’eredità che anch’io lascerò ai miei figli.”




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La Comunità e i suoi numeri.
San Patrignano è una realtà composta da: Fondazione San Patrignano e Consorzio San Patrignano con le sue Cooperative di prodotti e servizi, che può contare sulle produzioni proprie e sul contributo di donatori privati, dal semplice cittadino alla grande azienda o fondazione bancaria. Accede a finanziamenti pubblici per i progetti che si dimostrano collimanti con il proprio statuto e la propria missione. San Patrignano ha migliaia di benefattori, grazie ai quali ha raggiunto un valore immobiliare serio. È amministrata da un Consiglio formato da medici, editori, professori universitari e guidata da Andrea Muccioli.Vivono al suo interno 1800 persone di cui 160 educatori e volontari e 120 bambini; vi lavorano 250 professionisti, impegnati a trasmettere conoscenza e strumenti ai ragazzi. 400 i collaboratori esterni di cui personale medico, insegnanti, avvocati, architetti, veterinari, commercialisti, giornalisti. Nei suoi 25 anni ha ospitato 20.000 persone


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I Vini di San Patrignano
I vigneti di San Patrignano si estendono sulle colline di Coriano: oltre cento ettari complessivi di cui 83 in produzione nella vendemmia 2005, tutti di proprietà in un unico corpo. I vini prodotti dalla Comunità hanno ottenuto, negli ultimi anni, i più prestigiosi riconoscimenti italiani ed internazionali. Nel 2006 saranno commercializzati il bianco Vintàn 2005 ottenuto da uve Sauvignon e Chardonnay e i rossi: Aulente 2005 (100%) Sangiovese, Noi 2003 (60% Sangiovese, 20% Cabernet Sauvignon, 20% Merlot) e da settembre l’annata 2004. Sempre da settembre è disponibile sul mercato il bland bordolese di San Patrignano Montepirolo 2003 (Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot).



Campione del mondo


(intervista a Antonio Scarpato, pubblicato su Rimini IN Magazine)

Germania 2006. Fabio Cannavaro alza al cielo la coppa del Mondo e Antonio Scarpato alza verso quello stesso cielo scoppi di luce e fuochi tricolore. La notte di Berlino s'illumina a giorno e l'Olympiastadion esplode in un artificio di meraviglia. Dall'apice dell'anello partono zampilli fluorescenti che accendono il buio e il carnevale impazza sulle piazze d'Italia. Il successo italiano non è solo sportivo in questa notte magica: noi che conosciamo Scarpato stiamo pensando anche a lui. Riminese a Berlino, autore dello spettacolo pirotecnico che chiude il Campionato Mondiale di Calcio. Questa notte è anche un po' sua.
A distanza di poche settimane da quel trionfo, mentre è in procinto di partire per Cannes alla volta del Festival di Arte Pirotecnica che nel 2004 lo ha consegnato al podio più alto con "Omaggio a Fellini", quel caffè che gli preparo personalmente è un ritaglio di relax nella frenetica giornata di artista-manager, di uomo di successo che ama la musica e la poesia e che si diletta a tornare col pensiero e col cuore ai significati passati dei fatti di oggi.
"Berlino, per esempio, viene da lontano." Si riferisce alla prima volta che uno Scarpato sparò i suoi fuochi da quella stessa postazione. "Mio nonno, che si chiamava Antonio come me, - racconta - da Napoli dove era Maestro del Fuoco, nel 1930 si trasferì in Germania per lavorare come specialista del settore in una nota azienda pirotecnica. Nel 1936 mio padre lo raggiunse nella capitale dove, quello stesso anno venne inaugurato con festeggiamenti sontuosi e fuochi d'artificio il nuovo stadio, opera dell'architetto Werner March. Fu una cerimonia fastosa, com'era nello stile del Reich e la mia famiglia possiede ancora una foto dell'evento di cui fu un po' protagonista e che ritrae Hitler mentre sorvola l'edificio in mongolfiera. Quello stadio, illuminato al suo esordio dai nostri fuochi, era già nella mia storia, faceva già parte di me."
La Germania è una terra cui Antonio è particolarmente legato, non solo perché suo nonno e suo padre Mario vi hanno lavorato per tanti anni prima di trasferirsi a Rimini definitivamente, ma anche perché è a Stoccarda che Antonio ha studiato chimica ed è lì che è andato perfezionando, in linea con il metodo tedesco, la sua preparazione e la personalissima visione del lavoro.
"Sono un perfezionista - rivela - e sento profondamente il carico di responsabilità che deriva dall'essere l'ultimo erede di una tradizione familiare antica e che vorrei non finisse con me."
Classe 1952, Antonio è consapevole che la nobile arte del fuoco necessita di passione e che, quasi certamente, il fatto di essere sempre stato accanto a suo padre, fin da piccolissimo -"mi metteva nel barile della polvere nera!" - abbia influito notevolmente sul suo destino.
Sei generazioni di maestri del fuoco, trecento anni di tradizione italiana che parte dalla Corte Reale di Caserta, scorrono nelle vene del 'pittore del cielo, regista del fuoco, poeta della luce', omaggiato dalle istituzioni più autorevoli del settore, fra cui il Festival di Arte Pirotecnica e il Festival del Cinema di Cannes.
Come sosteneva Federico Fellini 'la luce è il primo degli effetti speciali'. Fiat Lux è la prima magia del creato, la ragione assoluta degli illuministi, la fantasia produttiva dei poeti, ed il 'poeta' Scarpato, dall'animo sensibile e creativo, va cercando in ogni opera l'emozione estrema.
"Quando provo uno spettacolo pirotecnico - spiega Antonio - tutte le arti diventano muse. La musica, la poesia, la pittura, il cinema. Tutte concorrono a creare suggestione ed effetti speciali. Oggi, grazie alle moderne tecnologie, ai fuochi s'aggiungono immagini, parole, musiche, raggi laser; insieme ai quali i lampi, gli scoppi, le cascate di fiori e fontane, di stelle filanti, diventano storie proiettate sul maxi schermo del cielo. Quando provo uno spettacolo - prosegue - non smetto finché non sento quella stretta al cuore che solo un'emozione forte può dare. Allora capisco che ci siamo, che quell'opera lascerà il suo segno." Quello stesso segno che deve aver lasciato in Madame Veronique Cayla, direttrice generale del Festival del Cinema di Cannes che, dopo aver assistito allo spettacolo di Antonio Scarpato dedicato a Federico Fellini, lo ha raggiunto a Rimini con la proposta di dirigere quello stesso spettacolo a chiusura della sua prestigiosa manifestazione. Fra i ricordi che costellano la sua storia, il Festival del Cinema è uno di quelli che non si dimenticano facilmente.
Mentre ripercorre con la memoria la soddisfazione provata, inserisce un cd ed ascoltiamo in anteprima la colonna sonora di Mediterraneo, lo spettacolo che quest'anno concorre al Festival di Arte Pirotecnica nella sua versione di Campionato Mondiale fra le cinque Aziende vincitrici delle passate edizioni. Dal 20 di luglio fino alla fine di agosto, Cannes ospita, in date diverse, gli spettacoli del fuoco più straordinari del mondo per decretare in fine il campione dei campioni, al quale sarà consegnata la 'Vestale d'Oro'.
"Mediterraneo è ispirato al nostro meraviglioso mare fra le terre - spiega- che unisce e divide da sempre civiltà così diverse e così profondamente simili." La colonna sonora, fatta di parole e musiche riempie la sala. E' un susseguirsi di melodie tradizionali: musica corsa, spagnola, marocchina, araba, greca, italiana, che si diffonderà sul mare di fronte a Cannes mentre la magia dei fuochi evocherà i colori di ciascuna di quelle terre che si affacciano sul mare. Brilleranno i rossi, i gialli, i verdi, i bianchi, i blù, incrociandosi e fondendosi nel cielo sopra la Croisette. Per 25 minuti di meraviglia.
"In questo spettacolo - commenta Antonio - ho desiderato unire alla bellezza dei fuochi un significato più ampio. Ho pensato al mare, che nel francese mere ha il duplice significato di madre. Ho pensato alle culture che vi si affacciano, ho lavorato sulle musiche tradizionali dei diversi popoli, sulle parole che accompagnano il buio d'inizio, a quella poesia che ho composto io stesso." Mediterraneo - recita più o meno il testo - origine ed approdo di popoli migranti, ricco di civiltà e culture, luogo ove si mescolano le musiche. Mediterraneo ondeggiante messaggero di pace, immenso blu le cui rive sono popolate di fichi, vigneti e olivi. Ricevi questa manciata di stelle e di fuoco.
Il Festival, così come il Simposio Mondiale di Berlino o altre manifestazioni del settore è il luogo che esaudisce la voglia di esibire la propria maestria, nondimeno è il luogo da cui prende vita tutto il sistema commerciale annesso al settore: la richiesta di spettacoli, di produzioni speciali, di prodotti pirotecnici per le diverse manifestazioni che avvengono a livello internazionale. Oggi il 70% della produzione dell'Azienda riminese è destinato al mercato estero dove è richiesto uno standard qualitativo elevatissimo, fiore all'occhiello della produzione Scarpato.
"Il mio sogno è quello di portare uno di questi spettacoli nella mia città, costruire una piattaforma in mezzo al mare e da lì sparare 25 minuti di fuoco, nel cielo sopra il Grand Hotel, perché Rimini possa vivere quello stesso incanto."
Al momento dei saluti non posiamo sapere l'esito che avrà l'avventura francese che lo attende, anche perché il concorso terminerà alla fine dell'estate. I presupposti per l'ennesima vittoria ci sono tutti, ma scaramanticamente possiamo solo lasciarci con un 'in bocca al lupo' da parte mia e con un 'crepi il lupo' da parte sua.



Intervista a Italo Cucci


Fra i tanti personaggi intervistati, ricordo sempre con particolare piacere il giornalista Italo Cucci. Questo lungo articolo, pubblicato qualche anno fa da Rimini IN Magazine, ha per trama le mie domande e per ordito le sue risposte. L’uomo di cui parlo emerge fra queste righe con tutta la sua esemplare personalità. Conservo gelosamente la corrispondenza di quei giorni, che si lega anche ad un episodio che mi è rimasto nel cuore. È stato l’ultimo servizio che ho realizzato insieme all’amico Venanzio Raggi, lui ci ha messo le foto, io le parole.

Cinquanta primavere di una Rimini sfogliata come il quotidiano che mandi giù col caffè del mattino. E tante estati fa. Poi un biglietto per l’America... Anzi no, per Bologna, una sorta di Mecca per chi come lui aveva un sogno da realizzare.

Forse viene dal mare l'influsso corroborante che accomuna i riminesi celebri. O forse sarà il Garbino a gonfiare le vele di vite straordinarie. Certo è che anche Italo Cucci, ricordandosi riminese, guarda nella direzione del mare. E mentre lo guarda si domanda: “Chissà se ci sono ancora ragazzi come quelli della Rimini degli anni Cinquanta, quelli che aspettavano il treno del Nord che portava le bionde straniere, quelli che d’inverno passavano ore e ore a rimpiangere l’estate nella sala biliardo del Bar Dovesi, mentre fuori nevicava o c’era una nebbia cane e mancava poco che ci si piangesse addosso..."

È bello tornare a Rimini e ritrovare il mare.

"Ma vorrei dirti perché quando guardo quel mare lo trovo diverso da quello che vedono tanti..." Inizia così un racconto sull’onda di emozioni che hanno riempito il tempo andato; non un amarcord di stampo tradizionale, piuttosto un gioioso recupero dal baule dei ricordi di nomi e volti e svolte nel variegato assortimento che compone la vita.

Riminese fra i più noti dei nostri giorni, Italo Cucci è nato a Sassocorvaro, nel Montefeltro, nel 1939 ed è cresciuto nella Rimini del dopoguerra dove ha iniziato la sua avventura giornalistica nel 1958 con il settimanale “La Provincia”, diventando giornalista professionista nel 1963 al Resto del Carlino/Stadio. Allievo di Gianni Brera, Severo Boschi, Aldo Bardelli e Enzo Biagi, oggi insegna giornalismo sportivo alla Libera Università delle Scienze Sociali (LUISS) di Roma e Sociologia della comunicazione sportiva alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Teramo. Collabora con diverse Università italiane dove tiene seminari e lezioni sui vari aspetti dello Sport. Ha diretto i giornali in cui è stato redattore. Prima il "Guerin Sportivo" (tre volte), poi "Il Corriere dello Sport-Stadio" (due volte), e il "Quotidiano Nazionale" che raccoglie le testate di "Nazione", "Giorno" e "Resto del Carlino" Ha diretto anche il mensile “Master” e il settimanale “Autosprint”.

Per lui, uomo della comunicazione, romagnolo nello spirito al di là del certificato anagrafico, parlare accorciando le distanze è un gioco da ragazzi. E la Romagna che gli è madre dal ‘43, quando con la sua famiglia raggiunse Rimini, è il fondale di ricordi che partono da una precisa estate.

"Eravamo, come tanti, gli sfollati che in quei giorni cercavano di scappare dalla guerra. – racconta - Il 29 giugno fummo mitragliati alla periferia di Santarcangelo e continuammo a fuggire finché trovammo rifugio a Poggio Berni, nel cuore della Linea Gotica."

Chi è stato bambino durante la Guerra, sa farne quadri di un verismo sorprendente, più che doloroso, stupito, con le mitragliatrici a far da colonna sonora. La gente di Romagna però aveva una capacità tutta particolare di accogliere i nuovi venuti, di infondere un senso di ottimismo che invogliava talvolta a cantare e a ballare, quello stesso che, dice Italo, vale più di un certificato di nascita, intendendo dire che dove c’è quel modo di essere, quel modo di prendere la vita, lì c’è la sua casa.

La nuova vita inizia in una città distrutta, nella zona vicina alle Officine Ferroviarie. "La prima volta che vidi il mare, - dice tornando al pensiero originario - mi colpì la spiaggia immensa e persone che stavano sotto cumuli di sabbia che sembravano tombe. Invece si curavano i dolori di guerra. La prima volta che vidi il mare e le luci di Marina Centro, mi colpì la commozione di mia madre. Ecco perché quando guardo il mare lo trovo diverso da quello che vedono tanti..."

Rimini. In una parola tutta la gioventù. Ed una valanga di nomi e cognomi che partono dalla scuola, giù giù per Marina Centro e finiscono a far mattina all’Embassy, alla Casina del Bosco, al Kansas City, al Paradiso. Così, ecco il Maestro Dionigio Monti con il cappello che toglieva solo in classe, educatore straordinario, come del resto il preside Arduino Olivieri del Liceo Classico Giulio Cesare che dicevano essere stato il preside anche di Fellini. Pur accondiscendendo all'attributo 'serioso', suggerito da me e da lui non disdegnato fino in fondo, Italo Cucci in verità è un uomo di spirito. "Potrei dirti degli amori - scherza - Meglio di no, sai quanto sono gelosi i riminesi! Degli amici invece sì. Ho tanti bei ricordi di un gruppo che si chiamava con un fischio. Giancarlo Turci, Rino Oliveti, Mario Mazzotti, Albertazzi e il suo clarinetto... Una banda che vagava a Marina che pensava al jazz, al baseball, agli amorazzi di stagione..."

La Rimini degli anni Cinquanta aveva il suo cuore a Marina Centro. E poi c'era il Paradiso, dove a mezzanotte ... "Ebbene sì, mentre l’orchestrina riposava, cantavo per quindici minuti Gilbert Bècaud e Nat King Cole, le mie passioni, e dove ho avuto l’onore di presentare le serate di Helen Merril e Chet Baker, sì, proprio il grande Chet, ‘Time After Time’, notti e note che mi sono rimaste nel sangue, insieme alle mattane di un’estate che forse non esiste più." Viveur e amante di Hemingwai, Steinbeck, Jean Paul Sartre, Tennessee Williams, della musica e della carta stampata, sorprenderà ma Italo Cucci, il grande giornalista sportivo, in quella gioventù scapigliata fu tutto tranne che sportivo, nonostante avesse avuto maestri come Romeo Neri ed Eugenio Pagnini. “Niente sport, solo musica e libri... Stavo ore e ore nel negozio di Minnie Torsani. Misi insieme una bella collezione che ho ancora, Minnie faceva credito, l’ho pagata dieci anni dopo... Steinbeck, l’ho capito quando ho preso un aereo, un’automobile e sono andato a Salinas, in California, e ho girato per giorni e giorni nella Valle dell’Eden... Sere dopo, a Los Angeles, parlavo di Rimini come un romanziere e mi ascoltava una vecchia conoscenza di casa, il colonnello Orlando, uno dei piloti della pattuglia acrobatica di Miramare che adesso è proprietario dell'hollywoodiano Caffè Roma. Ci guardava, con occhi divini, seduta più in là, Bo Derek... Beh, adoro i libri, ne ho collezionati migliaia, di ogni genere, e li ho appena donati a Pantelleria, la mia isola, l’altra Rimini che va bene per gli anni che ho. Forse ho smesso di sognare e ho cercato posto in un sogno permanente..." E la musica, con un sogno mai avverato... "Papà non poteva pagarmi le lezioni di piano. Se ne venisse l’occasione, farei come il dottor Faust: non darei l’anima, no, ma tutto quello che ho fatto in cambio della Suite Bargamasca di Debussy. Con me al piano. Ho un’immensa collezione di dischi di ogni tipo di musica, jazz, classica, rock, leggera, lirica: tutto Duke Ellington, tutto Armstrong, tutto Presley, tutto Nat King Cole, tutto Sinatra, e Verdi, Puccini il favorito...Un posto da visitare che consiglio agli amanti della musica: il cimitero parigino di Père Lachaise, dove puoi fermarti a pregare o a canticchiare sulla tomba di Rossini, di Jim Morrison, di Chopin, di Beethoven o della Callas e mille altri...Da Jim si può bere birra e fumare uno spinello: lo fanno."

A questi amori, in terza liceo, Italo aggiunse la politica e la passione per il giornalismo. Non era difficile sognare di fare il giornalista, in quella Rimini in cui uscivano sei giornali locali. Troppo impegno, e la mattina a scuola si addormentava sul banco. Allora l'insegnante di lettere lo provocò chiedendo perché mai continuasse a perder tempo e farlo perdere a scuola. 'fai il giornalista!' gli disse e lui la prese sul serio. "Mi bocciarono. Arduino mi guardò malissimo ma sorrise anche lui quando dissi che andavo a Bologna a cercare un posto al Carlino... Feci la mia valigetta e alla fine del Sessanta ero già via Gramsci 5, Bologna, la mia Mecca..."

Non era difficile sognare di fare il giornalista e lui l'aveva sognato seduto al bar dell’Embassy, guardando nella direzione dell’albergo di fronte dove scendevano sempre giornalisti importanti che venivano a Rimini in vacanza o per realizzare servizi estivi. "In quello stesso albergo ci tornai per una delle mie prime conferenze - ricorda - e in cuor mio ringraziavo Mimmo Mainardi che mi aveva svezzato, Achille D’Amelia che mi aveva fustigato, Amedeo Montemaggi che mi aveva appena sopportato ma mi aveva fatto scrivere nella pagina di Rimini un pezzetto per ricordare Fred Buscaglione quando morì... Ero amico di Fred. Nei giovedì pomeriggio si stava insieme all’Embassy, un aperitivo, tante chiacchiere. E la notte cantava “ricordati di Rimini, di quelle notti magiche passate in un sospir...” o “ Elio il barista è un ragazzo molto in vista...” Penso che la mia vita cambiò davvero quando se ne andò lui, perché lasciai Rimini per sempre. Salvo tornarci per gli affetti, la mamma, il fratello, i nipoti e qualcuno che col tempo ha deciso di ricordarsi che sono riminese..." Lui sostiene che i riminesi, se hanno memoria, se la tengono dentro, ben chiusa. Ma poi il suo pensiero corre a Ennio Zangheri e dice che ha fatto proprio bene a dipingere ed esporre quelle 'Facce di Riminesi' (Trenta Ritratti) "non solo perché ci ha messo anche la mia, ma per quella gente che non c’è più e io continuo a credere che sia viva, perché stando lontano mi arrivano solo raramente e quasi spenti gli echi degli addii..."

Dicevamo il giornalismo... ma non lo sport, bensì la cronaca, la politica... E invece poi un giorno fu investito di un incarico speciale. "Fu il Direttore del Carlino, Giovanni Spadolini, che mi...traviò. Gli stavo sulle scatole - afferma - perché in cronaca, a Bologna, parlavo sempre di politica e quando nel Sessantatré decise di farmi il contratto mi disse che un sovversivo come me stava bene allo sport, e mi spedì a ‘Stadio’. Senza saperlo, senza volerlo, fece la mia fortuna. Lo rividi nell’Ottantadue, in Spagna, alla vigilia della finale dei Mondiali che avremmo vinto... Era presidente del Consiglio."

I nomi e cognomi a questo punto della storia s'impennano ed ecco Spadolini, Ninni Pingitore, Sergio Zavoli, Enzo Biagi, Enzo Ferrari, ma non è facile riassumere gli episodi salienti di una carriera così dinamica e luminosa. "In una mia inchiesta dei primi anni Sessanta svelai per primo i misteri del Triangolo della Morte. Ecco perché Spadolini non mi amò... Ma fu la scuola del ‘Guerino’, a Milano, a lanciarmi definitivamente, tanto che si accorse di me Sergio Zavoli che ne parlò a Enzo Biagi per il ‘Carlino' Che andava a dirigere nel ‘70. È ancora il ‘Guerino’ dal ‘75, a darmi la spinta decisiva. I Mondiali d’Argentina nel ‘78 e il dramma dei desaparecidos, le Olimpiadi di Mosca nell’80 e l’inizio della glasnost. Insomma, non ho visto e raccontato solo lo sport. Poi i Mondiali dell’Ottantadue, mio personale trionfo perché ci avevo creduto prima, e la tragedia dell’Heysel vissuta e raccontata in diretta al ‘Carlino’. Ma il massimo fu conoscere e diventare amico di Enzo Ferrari. E anche questa è un’altra straordinaria storia..."

Dalla carta stampata alla tv passando per la radio che, come dice Italo, è il mezzo più sincero.

"Vedi, nello scrivere ricerchi la parola più appropriata, la citazione dotta, l’idea felice... In televisione spesso devi pensare anche alla cravatta giusta, al giusto atteggiamento. C’è quasi sempre qualcosa di falso. La radio è vita, quel che senti lo dici, quel che sei si capisce, vince la verità, non ti leggi, non ti guardi, non ti ascolti, vai dritto alla mente e al cuore di tanti..."

Ma allora la sua vita passata a dirigere quotidiani... "Dirigere un quotidiano è la cosa peggiore che può capitare! Non vai a governare notizie, storie, costume, luoghi e momenti della cronaca e della storia ma uomini che al giornale antepongono la loro vita e i loro problemi, che diventano i tuoi e ti assillano, ti spengono... "

Così per otto volte si è dimesso da altrettante direzioni. Senza rimpianti. "Non so cosa siano i rimpianti, - ammette- adesso dirigo me stesso e so di avere ancora tante cose da fare, tantissime da raccontare. Un giorno, visto che non lo sono, potrei fare anche lo scrittore. Vediamo cosa ne dice Pantelleria. Perché potrei anche dedicarmi a capperi, ulivi e buganville..."

Invece scrittore lo è, e se fra tutto quel che si ha, si potrebbero annoverare anche gli amici, beh di quelli il maledetto mondo del giornalismo induce a diffidare. In 'Un nemico al giorno' ultimo libro autobiografico, Italo Cucci espone la teoria secondo la quale un giornalista non possa avere amici, almeno nel lavoro. Vi sono descritte storie professionali con l’intento di colpire l'immaginazione dei giovani vogliosi di fare i giornalisti, "Ad essi ogni giorno vengono dati esempi penosi - dichiara - visto che ormai il Potere e il Giornalismo sono pappa e ciccia... Il giornalismo è un mestiere, non una missione, a me è andata bene perché ... - e qui termina con la frase diventata un suo cavallo di battaglia - se non sempre ho scritto tutto quello che volevo non ho mai scritto quello che non volevo."

BOX

Italo Cucci, ha collaborato con Pupi Avati alla sceneggiatura del film "Ultimo Minuto" con Ugo Tognazzi. Ha vinto il premio "Dino Ferrari" assegnatogli da Enzo Ferrari, col quale ha avuto un lungo rapporto d’amicizia. Ha scritto numerose biografie di campioni e storie dei Mondiali di Calcio e tre libri, il romanzo "Minuto per minuto", l’autobiografia professionale "Un nemico al giorno" e "Tribuna Stampa - Storia critica del giornalismo sportivo"(con Ivo Germano) Oggi è Direttore Editoriale dell’Agenzia di Stampa Italpress, scrive per i giornali del Gruppo Monti/Riffeser, “Avvenire”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Messaggero Veneto”, il “Giornale di Sicilia” e altri quotidiani regionali, per “l’Indipendente” e “Ideazione”. Collabora alla Rai come commentatore del TG2, opinionista di “Sabato Sprint”, "Unomattina” e RadioRai. E' ospite fisso della Grande Giostra del Gol di Rai International.

Recentemente è stato Testimonial della Campagna di Telefono Azzurro