Arriva col suo
bastone accessoriato, che nella notte può anche illuminargli il cammino… si
siede nel salotto ‘della memoria’ e si mette comodo, perché di cose da
raccontare - anticipa immediatamente – ne ha davvero tante. Lui è Rocchi Primo,
detto Nino, classe 1922.
La Viserba di Primo è la terra alla quale egli ritorna dopo
gli anni di lavoro nelle grandi città degli anni Quaranta: prima Milano, dove
un parente gli aveva procurato una richiesta di lavoro, poi Napoli. È un luogo
dove ancora deve impazzare la furia devastatrice dell’ultimo anno di guerra, la
terra delle vongole e delle dune di sabbia. Gli episodi sui quali si concentra
il racconto di Primo partono da un preciso momento storico: lo sbarco alleato
in Italia. Nel luglio del ‘43 gli alleati anglo-americani sbarcano in Sicilia e
iniziano a risalire la penisola. Il 25 luglio il Re fa arrestare Mussolini,
nominando Pietro Badoglio capo del governo e il fascismo viene dichiarato decaduto.
Lo stesso governo Badoglio, l’8 settembre 1943 firma l'armistizio con gli
alleati, ma i tedeschi occupano Roma e liberano Mussolini dalla sua prigione
sul Gran Sasso. Badoglio lascia Roma e, insieme alla corte, si rifugia a
Brindisi nel territorio controllato dagli americani, mentre l'esercito tedesco
invade l'Italia del centro-nord.
Inizia così la guerra di Resistenza in Italia, che vide contrapporsi le truppe
irregolari partigiane ai soldati tedeschi occupanti e al risorto esercito
fascista della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini.
“Tornai a Viserba, la mia terra d’origine, dopo gli anni
trascorsi a lavorare prima a Milano, poi a Napoli, risalendo la penisola insieme
al fronte. Già a Napoli ero stato fra i gruppi antifascisti che avevano liberato
la città dal dominio nazista prima ancora che gli alleati arrivassero…”
Durante quell’insurrezione popolare, che passò alla storia come ‘le quattro giornate di Napoli’, gli abitanti della città partenopea,
sostenuti da militari italiani fedeli al Regno del Sud, ormai esasperati e
stremati per i lunghi anni di guerra, si erano ribellati con successo ai
nazisti ed erano riusciti a liberare la città dall'occupazione delle forze
armate tedesche. Quando gli alleati, il 1 ottobre 1943, giunsero a Napoli, trovarono
una città già libera, grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti.
“Ci fu un momento in cui la guerra parve sul punto di finire
– ricorda Primo – un momento di smarrimento e di perplessità, in cui si cercava
di capire come saremmo andati a finire… in quel momento intrapresi un
turbolento viaggio di ritorno a casa; un po’ a piedi, un po’ con un convoglio
che mi portò fino a Roma… ricordo che avevo una gamba ferita piuttosto
gravemente. Quando bombardarono Cassino, fra il gennaio e il febbraio del ’44, ero
lì…”. Il Comune di Cassino, ai piedi del colle su cui sorge la celebre Abbazia
di Montecassimo, fu completamente distrutto dai bombardamenti degli Alleati che
intendevano fare breccia nella Linea Gustav, assediare Roma e collegarsi con le
forze alleate che rimanevano confinate ad Anzio, alle spalle del fronte
tedesco. Dopo una tenace resistenza tedesca a Montecassino, che si protrae fino
alla fine di maggio, Roma viene liberata. I tedeschi abbandonano l’Italia
centrale e si arroccano sul fronte appenninico: la Linea Gotica.
“Dopo le esperienze di Napoli, ero avvezzo alla vita
sotterranea, - riprende Primo - che anche qui a Viserba presi a condurre. Tornai,
ovviamente, da partigiano, per proseguire nell’impegno che fino a quel momento
mi aveva visto da una parte precisa della barricata.”
Il fronte si era spostato proprio nel territorio riminese,
erano momenti molto difficili, le persone erano sfollate altrove.
“Qua a Viserba andavano e venivano anche uomini politici e
militari importanti. – prosegue - Diversi Generali avevano qui le loro ville
estive. Fra questi c’era il Generale Malavasi, romano, capo di stato maggiore
dell’esercito italiano. Aveva firmato con Badoglio la resa dell’Italia. Insieme
alla moglie, la Contessa De Laurenti (il padre era un famoso medico), si era
rifugiato qua, nella sua villa fra Viserba e Viserbella, all’angolo di via
Vincenzo Busignani. I tedeschi lo cercavano, lui si era nascosto nelle cantine
della villa, c’erano anche altre otto, dieci persone insieme a loro… gente di
qui, del posto. Nessuno ha parlato, tutti hanno mantenuto il segreto, c’era
molta solidarietà. Anche i forestieri, che passavano qui l’estate, erano di noi.”
La vita improvvisamente assumeva tutta un’altra dimensione.
Non c’erano più abitudini, regole, ritmi quotidiani. Improvvisamente non si
andava più alla guerra, la guerra era arrivata in mezzo alle case, alle
persone. Viserba era un’area già più periferica rispetto alla città di Rimini,
sulla quale ogni giorno si abbattevano bombardamenti a catena: sul porto, sulla
ferrovia, sul centro storico e nevralgico della vita sociale e politica. A
Viserba, ancora si sopravviveva.
La Linea Gotica n.1,
detta anche Linea Verde n 1, - come si legge nella bella opera di Amedeo
Montemaggi “Linea Gotica Scontro di
Civiltà” era una linea di 320 Km che da Pesaro attraversava gli Appennini
sui passi del Muraglione, del Giogo di Scarperia e della Futa e giungeva al
Tirreno, a Massa Carrara. La Linea
Gotica n. 2 andava da Riccione a Coriano, a Gemmano, a Sarsina, a Galeata e
Marrani, poi a Riolo, Porretta Terme fino al Tirreno. L’ordine alleato era
semplice, ma grandioso: sfondare la Linea Gotica, distruggere i tedeschi in
Italia e penetrare nei Balcani, incontro ai Russi. Si combatterà su quel fronte
fino al 6 gennaio 1945, ma la decisione è presa entro il 30 settembre 1944 con
la conclusione della Battaglia di Rimini. Nei primi 37 giorni di combattimento
la perdita in termini di risorse umane ammonta a 100 mila uomini compresi i
civili. La città di Rimini è rasa al suolo da 400 bombardamenti aerei e navali.
“Noi partigiani, stavamo sempre nascosti, ci chiamavamo con
soprannomi, - riprende Primo - non sapevamo neppure il nome degli altri del
gruppo, perché se i tedeschi avessero preso qualcuno di noi, non saremmo stati,
neanche volendo, in grado di rivelare le identità dei compagni… Di tanto in
tanto tentavamo qualche sortita: mettevamo chiodi sulle vie di passaggio delle
auto dei militari tedeschi, tagliavamo i fili del telegrafo per rendere
difficili le loro comunicazioni. Una volta, ricordo che Guerrino Para, che
oltretutto non c’entrava niente con il nostro gruppo, venne fermato da una
camionetta tedesca. Lui aveva una gran cesta di frutta. L’ha offerta a quegli
ufficiali, e, da sotto al cesto gli ha fregato il parabello (una sorta di
mitraglietta), esponendosi ad un enorme rischio.”
Le giornate trascorrevano tutte uguali, e i luoghi che tornano
fra i ricordi di Primo, sono quelli, più appartati, dove c’è ancora la vecchia
corderia, e nei campi li attorno, fino all’area dove oggi sorge il Centro 2000.
“Stavamo nascosti all’interno delle mura della vecchia corderia, - dice - dentro
un enorme pagliaio dal quale potevamo veder fuori, cosa stesse accadendo… quel
pagliaio era diventato a tal punto la nostra casa che, all’interno aveva
assunto le dimensioni di una stanza. Addirittura, un filo della luce ci
collegava con una casa lì vicina, dalla quale, tirando il filo, ci veniva dato
l’allarme della presenza nemica. Mi hanno preso due volte. Una delle due volte
sono fuggito saltando nella buca del letame…Ricordo che anche qui a Viserba,
c’erano personaggi legati ai servizi segreti inglesi. – prosegue Rocchi – Il
giornalista Guido Nozzoli, che faceva la spola qui, via mare, ci aveva dato i
nomi dei principali capi e in particolare del capo del controspionaggio
inglese, qui in zona.” Guido Nozzoli aveva partecipato alla Resistenza come
comandante partigiano ‘responsabile diretto’ nella zona di Rimini. Eletto
consigliere comunale del PCI nel 1946.
“Fu lui a scongiurare la mia cattura da parte dei tedeschi –
rivela Rocchi - e che mi aiutò anche all’indomani dell’arrivo dei soldati
americani, canadesi, inglesi, anche a Viserba. Mi aveva fatto un foglietto,
scritto a mano. Cosa ci fosse scritto… non lo so. So che quel bigliettino
conteneva le parole chiave per la salvezza, come un antico salvacondotto.
Quando gli alleati sono entrati in città, mi sono unito a loro e con loro ho
proseguito la risalita fino a Ravenna. Gli inglesi avevano bisogno di autisti e
io mi sono offerto. Guidavo un camion che veniva chiamato “cantina mobile”
portava ogni ben di Dio… Era una condizione privilegiata, mi davano abiti, cibo
e 75 lire al giorno per fare quel lavoro. Avevamo persino un cuoco di Pescara
che cucinava per tutto il campo. Finalmente, dopo tanti disagi e difficoltà e ‘resistenza’…
mi sentivo ripagato di tutto. È vero, erano stati coloro che avevano distrutto
le nostre case, le nostre strade, che avevano raso al suolo Rimini, ma
purtroppo, anche se il prezzo da pagare era stato molto alto, senza
quell’intervento non ce l’avremmo fatta. Degli anni seguenti alla guerra… beh,
con un fatto più lieto vorrei concludere:
nel 1949, si andava tutti in bicicletta, quel giorno Gino
Marconi mi ha prestato la sua… siamo partiti proprio da questa piazza, ragazzi
e ragazze… sul cannone della mia bicicletta è salita Elvezia Tordi, mia moglie.
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