(articolo pubblicato da Rimini IN Magazine dicembre 2007)
Un grande uomo del Novecento riminese, esempio per
molti. L'avvocato Luigi Benzi, chiamato da sempre Titta, ha dato quest'anno
l'addio alla toga. Fra i suoi ricordi scorrono pagine note dell'amicizia
fraterna che lo legò fin da bambino al grande regista Federico Fellini.
Si confonde, nel disegnare i tratti di Luigi ‘Titta’ Benzi, il confine preciso
fra l’uomo e il personaggio. Forse perché l’uomo è stato personaggio molto
prima di averne consapevolezza.
Nella mente dell’Uomo
dei Sogni, Titta era sempre stato un personaggio, lo era stato per il suo
cuore di amico scanzonato e fraterno, lo era stato per quella gioventù
condivisa, per una storia comune che la genialità del presente lo chiamava ad
esprimere per suggestioni, per visioni…
Ecco perché Titta Biondi, il giovane protagonista di
Amarcord è non solo Luigi Benzi, noto penalista del foro riminese, ma anche il
regista Federico Fellini che, nelle goliardiche nefandezze dell’uno li ha
raccontati entrambi. Uniti per sempre: il ‘Grosso’ (altro nome con cui Fellini chiamava
Luigi) e lo smilzo; lo sportivone (Titta) e l’antisportivo per eccellenza (Federico) intento
a guardare lontano e a disegnare fumetti. Amici per la pelle, di quelli che hanno
giocato alla guerra di Troia, che si sono chiamati 'pataca' (con tutto il bene
che solo un riminese autentico può trasmettere in questa parola) per tutta una
vita, anche quando le professioni li hanno portati lontano: Federico alla
conquista di Roma; Luigi preso dagli studi in legge. Primo classificato
all’esame da avvocato, Luigi è fra gli unici 23 avvocati della Rimini del
dopoguerra. Da allora è stato impegnato in importanti processi “vincendo o
perdendo – scrive nel suo libro autobiografico – a seconda dell’illuminazione
delle stelle.”
87 primavere e una vivacità che abbraccia; così è
l’avvocato Benzi che, dopo sessantun anni di carriera ha dato quest’anno
l’addio alla toga. “Un po’ perché è ora – dice – e un po’ perché non condivido
più il sistema giudiziario del nostro Paese. Troppi delinquenti con la
possibilità di farla franca! Ho iniziato questo mestiere che la guerra era
appena finita e in questo mezzo secolo ho visto il crollo verticale dei
costumi, dei valori, del senso dell’onore che oggi non esiste quasi più.”
E qui mette un punto, perché “è meglio parlare di
cose più allegre.” E poi, come diceva Federico Fellini, 'il mondo ha più
bisogno di una parola di serenità e conforto'.
Così, ecco venir fuori una vignetta: quella con la
quale Fellini lo pubblicizzava a Roma ‘Titta: giovanotto riminese specializzato
nel rubare i soldi al nonno.’ Al che, il vecchio Benzi scuotendo la testa nella
direzione del figlio aveva lamentato: ‘Vut
che sia roba? Te che duvria fè l’avuched!’ Oppure il ricordo di quella
volta che l’amico regista lo aveva invitato all’anteprima di Amarcord. “Era il
dicembre del ’74, al Quirinale c’era un’adunata di tutto rispetto con, in
testa, il Presidente Leone, c’era Fanfani… Lì per lì, preso dalla situazione,
non l’avevo capito fino in fondo sto Amarcord! Non avevo capito che c’eravamo
proprio tutti, resi caricature di noi stessi, esagerati, enfatizzati, ma tutti
noi gente del Borgo Marina.”
Gradisca, sembra, non prese del tutto bene la propria
‘trasposizione cinematografica’, la famiglia Benzi, invece, ebbe una reazione
diversa. “Mia madre, la prima volta disse: ‘e
tu amig u’ma fat murì prima de temp!’ Mio padre l’ha riempito di
esclamazioni dall’inizio alla fine, ma certamente gli fece piacere la parte che
Federico –un po’ gonfiata in verità – gli attribuì, di sfegatato antifascista.
Antifascista lo era, ma quella scena, con Aurelio in cima al campanile a far
girare il disco partigiano…”
Per la parte di Aurelio, Fellini avrebbe voluto
proprio Titta. “Me lo ha chiesto ripetutamente e al mio ennesimo ‘no’ disse:
‘Benissimo. Rimani pure a Rimini a difendere i ladri di galline!' – ride- disse
proprio così!” E quindi Luigi Benzi ‘in arte Titta’ rinuncio ad un futuro da
attore. Lo fece per amore, dice lui. “Certo, mia moglie non vedeva di buon
occhio un soggiorno prolungato del sottoscritto nella capitale.” Conscia della
propensione al libertinaggio del legale consorte – o ‘vitellone’, che, con
tutto rispetto, dir si possa – mise il veto.
Ma di occasioni ne vennero altre; come quella volta
che, cliente al seguito, l’avvocato si lanciò (o fu lanciato) nella mischia
della ‘cena di Trimalchione’.
“Ero a Roma – racconta – insieme al mio cliente
(commendator Ghigi nientemeno) avevamo vinto una causa importante, eravamo
soddisfatti. Decido allora di fare una sorpresa a Federico che stava girando
‘Satyricon’. E lui, per la felicità di vedermi, mi ha preso, semidenudato,
dipinto di nero e sbattuto al centro della scena, con Ghigi che faceva: ‘dì, ma ique a si tut matt! Quest l’è un
manicomi!’
Andava spesso, Titta, a trovare Federico sul set dei
suoi film. “Era bellissimo vedere come la finzione prendesse forma diventando
più vera del vero. – racconta – Era tutto finto, era solo suggestione. Persino
la neve: veniva sparata da una macchina con una bocca enorme e milioni di
coriandoli bianchi fluttuavano nell’aria, si adagiavano sui cappelli, sui
cappotti, si ammassavano a terra creando cumuli…” La neve del ’29, quella,
invece, era vera e aveva ricoperto la città fino a farla sparire. “Del ‘nevone’
ho un ricordo preciso: è ritratta in un quadro fatto da mio padre -che era
anche pittore- che ancora tengo appeso in casa.”
La Rimini di Titta il ‘Grosso’ si è trasformata in
questi anni, ma nel suo cuore rimane un magico fondale fatto di luoghi entrati
nel mito: il Corso, il Grand Hotel, il mare. “Sono sempre là, ma non hanno più
la stessa carica emozionale che, per ovvie ragioni, avevano cinquant’anni fa.”
Un fondale surreale, con il cinema a Fulgor, il
Casino di Via Clodia con le donnine che cambiavano ogni 15 giorni ‘donne
dipinte – scrive Federico Fellini – con velette strane, misteriose, che
fumavano sigarette col bocchino d’oro’.
L’Amarcord di Luigi Benzi ha il medesimo canone di
quello originale, non segue una narrazione lineare: è fatto di situazioni, di
aneddoti, di vignette. Mentre racconta, mostra una fotografia, uno schizzo, un
pensiero scritto a mano su un foglio ingiallito; e la storia, comunque, prende
forma. È una storia che ha raccontato tante di quelle volte… Eppure ogni volta
è come se fosse la prima. È una storia che gli ha valso il Sigismondo d’Oro,
massimo riconoscimento cittadino ‘per aver mantenuto, - si legge- saputo
coltivare e diffondere l’attaccamento intelligente alle tradizioni e alle
radici della nostra terra, per aver condotto una esemplare attività di
professionista, mai dimenticando le virtù dell’umiltà e dell’ironia, per essere
stato negli anni, uno dei più fedeli e discreti custodi della memoria di
Federico Fellini.” Una storia fatta anche, spiega Titta, di “piccole cose di
poco conto, da ridere o da piangere” raccontate dall’avvocato nel suo libro
‘Patachedi’.
La toga dai cordoni dorati è appesa al ‘chiodo’
insieme alle scarpette a 13 tacchetti. Acori siede sulla panchina che fu di
Herrera, di Bagnoli, di Sacchi. Fuori dalla finestra del prestigioso studio
legale, uno dei più antichi della città, la Domus del Chirurgo si sveglia dal
sonno dei secoli.
La storia, in questa città millenaria, è il racconto
‘visionario’ dei suoi cittadini più straordinari.